In questi tempi pieni di conflitti girare un film sulla guerra fredda suscita qualche brivido. Spielberg ha scelto proprio il 2015 per raccontare una vicenda celebre nell’epopea americana, con spunti tratti dalle esperienze di vita di suo padre. “Il Ponte delle Spie” è uscito al cinema lo scorso 16 dicembre, lo stesso giovedì di “Star Wars” e non ci potrebbero essere film più diversi e tuttavia simili per provenienza, americanissimi entrambi. Racconta la vicenda dell’ “1960 U-2 incident”, in cui venne catturato un soldato americano che aveva sorvolato i cieli sovietici per conto dei servizi segreti americani, per la liberazione del quale venne ingaggiato un avvocato di Brooklyn, poco esperto in spionaggio e in questioni che riguardassero la Germania di allora. La controparte è il rispettivo prigioniero degli americani, spia dalle parvenze rigidissime, dalle passioni artistiche e dal piglio da gentiluomo. Tom Hanks (sempre più bolso), diretto dal regista che più lo valorizza, è calato nel ruolo che gli riesce meglio, dell’ingenuo sapiente che se la cava sempre sia con l’astuzia che con un po’ di culo. L’ambientazione è perfetta, ogni dettaglio d’epoca perfettamente ricostruito come in un quadro fiammingo, fin troppo, avvolto da un’atmosfera patinata che contorna tutto con un alone fasullo. Sebbene “Il ponte delle spie” appartenga al filone spielberghiano di “Munich”, non ne ritrova la potenza e la visione approfondita della vicenda, finendo, purtroppo, per creare un racconto manicheo dove gli americani sono i buoni e i russi i cattivissimi e loschi. Si nota soprattutto per il confronto (che coraggio ad essere così palesemente faziosi) tra i due differenti sistemi di detenzione, dove i primi trattavano i prigionieri come signori, ascoltando con loro musica classica e munendoli di pennelli e sigarette, mentre i secondi li lasciavano mangiare tozzi di pane tra una tortura e l’altra. Viene approfondita in modo particolare la tecnica della deprivazione del sonno, che il padre di Spielberg aveva conosciuto durante in Russia per lavoro negli anni ’50.
Non possiamo parlare di un regista in stato di grazia (anche se ha sempre grande stile ed è uno dei più grandi di Hollywood), ma di un film che dà il meglio nelle prime scene (molto bello l’inseguimento iniziale in metropolitana) per perdersi progressivamente per ritmo e intensità, in due ore e mezzo di orgoglio patriottico che stroppiano. Interessante per rinfrescare la memoria storica e per riflettere sull’uguaglianza tra uomini di ogni nazionalità e fede politica, meno interessante sotto il profilo dell’intrattenimento, da promuovere con riserve.

Il Demente Colombo