ruminations-front-coverC’è Bob Dylan. E poi ci sono quelli che raccolgono la sua eco, che girano per il mondo tentando di imitarlo o sognando di superarlo. E poi c’è Conor Oberst, che sa suonare l’armonica ma ha scelto come compagno di viaggio anche il pianoforte, o una chitarra, in un rapporto sempre esclusivo e di dipendenza totale. E questa fedeltà allo strumento puro, alla voce spezzata e imperfetta, questa introspettiva che distrugge le distanze con l’ascoltatore lo rendono assimilabile al cantautorato folk basato su semplici melodie e testi potenti. Accostabile ma non esauribile in esso, distinguibile tra la massa di bardi contemporanei in acustica chitarra e voce. L’ultimo dei suoi lavori –testimoni di un percorso di lunga ricerca emozionale – è “Ruminations”. Che vuol dire ruminare, ma anche riflettere, ponderare, fermarsi. Smettere di correre dietro il tempo senza sfruttarlo, di fare cose senza viverle, di accumulare esperienze e sensazioni senza assimilarle.


Il disco è potente
, pieno d’inquietudine e velato dalla consapevolezza della caducità umana. Poesie musicate, quelle del cantautore statunitense, ma incollate alla vita. Dubbiose sulla propria personalità, come Counting Sheeps. Tormentate dal futuro, come Tachycardia. Bisognose di staccarsi e vagare nelle note, come Little Uncanny. conor-oberstÈ proprio qui però, nei momenti in apparenza più sospesi e distanti dalla materialità, che emergono i tormenti più bui e si svincolano le incertezze più tribali, non filtrate dalla ragione. Qui Oberst si erge sul bordo di un disperato dirupo, qui dice “They say a party can kill you, sometimes I wish it would”. Così come canta “I just wanna get drunk before noon” in Barbary Coast (later) o nella struggente difficoltà di continuare a vivere di Next of Kin. Sono questi gli unici modi per evadere e sentirsi liberi? A volte, forse. Ma Conor sa che non è così che si trova una soluzione, che è solo un rimandare la scelta e procrastinare il dolore. Perché alla fine tutto serve, tutto è destinato a scorrere, a cambiare e a ritornare: The Rains Follows The Plow. E quindi nell’ultimo brano, Till St. Dymphna Kicks Us Out, stila un incoraggiamento a combattere per la felicità, per le piccole gioie sincere: “At least buy another round”, fai un altro giro al bancone della vita, prima che chiuda e sia tardi.
Dieci canzoni che parlano al cuore, nella loro essenzialità e straziante ricerca spirituale. Sono accordi che si lasciano colare tra le parole, che costringono a lasciarsi fluttuare nei pensieri anche scuri, nell’ombra dell’angoscia esistenziale che insegue e permea il disco. E insegna che non serve a nulla riempire un’agenda per colmare l’anima. Rimanda solo le riflessioni e i vuoti a data da destinarsi.

Giulia Zanichelli