Questa improvvisazione raga-post-core, suonata in studio nel 2016, uscita lo scorso marzo ed eseguita dai libanesi Sharif Sehnaoui e Tony Elieh, rispettivamente alla chitarra e al basso, accompagnati dal batterista degli Squadra Omega Davide Zolli, probabilmente resterà la cronaca di una breve avventura senza diventare una “relazione seria”, ma oltre che per la qualità delle quattro lunghe tracce presenti, vale la pena di essere ascoltata soprattutto per l’uso peculiare della 6 corde, capace di far riflettere su come da uno stesso strumento possano essere sviluppate potenzialità diverse in base al brodo culturale in cui viene impiegato.
Perché al di là dei ritmi spezzettati a velocità di crociera suonati come ogni bravo gruppo post-core che si rispetti, qui la chitarra, invece di barcamenarsi tra power chords, feedback o arpeggi, alterna piuttosto droning di diversa modulazione che fanno pensare all’ambient dei Can più rilassati nei momenti in cui la tessitura è più levigata ed a un sitar elettrificato in quelli in cui invece è più simile alla trama di un tappeto persiano degno di un pezzo grosso del clero sciita.
Possiamo quindi speculare che rispetto all’occidente industriale, genitore della macchina a vapore e della chitarra rock, l’oriente, con la sua ossessione per la forma e l’ordine, tenda a privilegiare un suono più spalmato, ecumenico, meno polemico e più compromissorio?
Alessandro Scotti

Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.