Un paio di settimane fa ho comprato un giubbino di pelle. Niente di che, robaccia finta in saldo clamoroso. Ebbene, anche se non sono più un ragazzino, guardandomi allo specchio mi sono atteggiato come il più vanitoso dei teenager. In realtà è stato un gesto molto istintivo: testa bassa, mani in tasca, stivali ben allacciati. Quando ho alzato lo sguardo da finto duro, per un attimo ho pensato di essere Robert Levon Been. La dura legge dell’immedesimazione, e dell’impietoso confronto con i propri idoli, vale soprattutto per chi, come me, restò folgorato dall’esordio dei Black Rebel Motorcycle Club nel lontano 2001. Ed è straordinario, per quanto frustrante, scoprire soltanto davanti allo specchio di un camerino come l’effetto di quella scarica di revival garage e psych-rock si faccia sentire ancora oggi con tale intensità. 

Quella del giubbino di pelle è una metafora stupida. Ben più rilevante, invece, è il segno lasciato dal trio di San Francisco nell’inconscio di un ragazzino ormai cresciuto, nell’immaginario di un’intera generazione e nella musica degli ultimi due decenni. Una colata di lava incandescente che con il tempo si è solidificata in un blocco coriaceo. Il risultato è un certo immobilismo di fondo. Resti lì, inamovibile nelle tue convinzioni di fan. Pietrificato come un pompeiano nel 79 dopo Cristo. Ma anziché imbalsamarti le mani nel gesto tragico di ripararti il viso da una pioggia di lapilli, le ceneri ardenti dei Black Rebel ti hanno immobilizzato per sempre con le corna alzate al cielo in onore del rock’n’roll. Attenzione, dunque. La fossilizzazione di una band, la sua elevazione ai ranghi del mito, per non dire del feticcio, è un paradigma rischiosissimo o quantomeno equivoco.

Fatte tali premesse, la lettura di un disco come “Wrong Creatures”, uscito pochi giorni fa per la Vagrant Records, può rivelarsi talmente foriera di errori da rendersi necessariamente attenta e puntigliosa. L’unica via di fuga per non incespicare in un giudizio di parte è ascoltare l’album prima con l’orecchio di un ascoltatore solo vagamente incuriosito e poi con quello del fan di vecchia data. Nel mio caso, visto lo shopping prolifico, lo ascolterò prima indossando il mio solito abbigliamento logoro e poi col giubbino di pelle. Quello nuovo.

Con il solito abbigliamento logoro

Diciamoci la verità. Sono un po’ di anni che Robert Been e soci vivono sugli allori. Il precedente “Specter at the Feast” (2013) è forse il capitolo più debole dell’intera discografia. Certo, qualcosa di buono riescono sempre a infilarcelo. I Black Rebel Motorcycle Club sono un cavallo di razza che esegue l’esercizio con stile, ma ad occhi chiusi. Pezzi come Calling Them All Away o la conclusiva All Rise non entreranno sicuramente nella storia del gruppo. L’impressione è che la formula, previa una poderosa frenata a favore della ballad oscura, si sia incancrenita sui vecchi modelli, dai Ride ai Jesus and Mary Chains, fino ai Velvet Underground. Quando non lo fa, scivola dalle parti di un pop-rock un po’ troppo di maniera, in stile Kasabian (Little Thing Gone Wild). “Wrong Creatures” gode però del fascino perverso di una band che per arrivare a questo nuovo lavoro ha dovuto soffrire tantissimo. Prima la batterista Leah Shapiro, colpita da una rara malattia al cervello. Poi i due frontman, logorati entrambi dalla depressione. Il disco, che alla luce di tutto questo è già di per sé un miracolo, risente dunque di un vissuto tutt’altro che felice. Al contrario, è un viaggio nei meandri più bui dell’esperienza umana, che sfocia in un sound più che mai dark, a tratti shoe-gaze, e che piacerà non tanto agli amanti dell’indie-rock dei primi Duemila, quanto ai fan di altre due band che iniziano con “Black”: The Black Angels e The Black Mountain.

Con il giubbino di pelle

“Wrong Creatures” è un disco che segna il ritorno del gruppo a un’opera ispirata e granitica. Dentro c’è tutto quello che si può desiderare dai Black Rebel a diciassette anni di distanza dal loro esordio. E basta con il giochino ormai scontato, e poco divertente, che scimmiotta in modo retorico una delle loro prime hit! Ah sì? Ve lo state davvero chiedendo? Dove è finito il rock’n’roll? Beh, non c’è rocker che si rispetti che non abbia pagato pegno al dio del blues. E il trio americano lo fa già da cinque album a questa parte, con un approccio moderno che mescola le acque malinconiche del delta del Mississipi all’oceano di pioggia degli Echo and The Bunnymen. Questo ottavo album in studio si apre con un’introduzione strumentale che in quanto a umore non lascia presagire nulla di buono. Un ritmo tribale, quasi sciamanico, trascina l’ascoltatore verso luoghi che in realtà si rivelano ben più riconoscibili. Spook e King of Bones sono infatti due brani potenti in perfetto stile Black Rebel. Così pure Question of Faith, maestosa marcia blues cantata da Peter Hayes con una classe che ormai ha raggiunto livelli altissimi. A sorprendere, però, è la doppietta composta da Echo e Ninth Configuration. La prima, già uscita come singolo, è un lentone orchestrale che parte da un sussurro per liberare i polmoni in un ritornello strappalacrime. La seconda, altrettanto rallentata, deborda sul finale con tirate di chitarra acida che rischiano di corrodere non solo il mio giubbino nuovo, ma anche il vostro più vecchio. E non ditemi che non ne avete uno. 

Paolo Ferrari