“È la fine quella più importante”, cantavano gli Afterhours dei tempi d’oro. E in effetti, mantenendoci in ambito strettamente artistico, la conclusione di un’opera ha sempre assunto un ruolo primario. Il sospirato finale è spesso il momento della canzone che più attendiamo, quello che ci esalta maggiormente e che ci fa saltare il cuore in gola. Nella gran parte dei casi, il finale si concretizza in un’esplosione sonora che segna il traguardo di una cavalcata. In altri, invece, è come una miccia che dopo lo scoppio si affievolisce su se stessa e si spegne lentamente. C’è chi urla fino a perdere la voce e chi gioca sull’effetto sorpresa. Chi lancia moniti contro il sistema e chi intona cori da stadio.

Insomma, ci sono molti modi per chiudere un brano, ma in pochi riescono a lasciare il segno per davvero. Ecco, qui sotto ho raccolto le 30 canzoni con gli outro che da sempre mi fanno impazzire. Quelli per cui mi basta chiudere gli occhi per volare sulle note. Oh, non si tratta di una classifica. L’elenco procede in ordine rigorosamente cronologico. E non è nemmeno detto che i miei finali del cuore corrispondano ai vostri. Anzi, fatemi sapere quali aggiungereste. Per il momento, buon ascolto.

Paolo

 

 

The Beatles – A Day in the Life (1967)

L’ultima traccia di “Sgt.Pepper Lonely Heart Club Band” è forse il punto più alto raggiunto dall’accoppiata Lennon-McCartney nella loro tormentata carriera artistica. Inutile sottolineare la meraviglia del brano, la sua importanza e le vicissitudini legate alla sua pubblicazione, visti i malcelati rimandi all’uso di LSD. Concentriamoci per una volta sul finale. Quaranta secondi che ti trascinano nei meandri dell’inconscio.

 

The Rolling Stones – You Can’t Always Get What You Want (1969)

Registrata con l’aiuto di un coro londinese, questa canzone è una delle nove perle contenute in “Let it Bleed”. Leggenda vuole che fu scritta dopo che Mick Jagger ricevette una lezione di vita da un giovane e spavaldo barista. In quella occasione Mick ordinò una “cherry soda” e il ragazzo gli disse che non aveva a disposizione le ciliegie per realizzare il drink. Mick, come potete immaginare, reagì male. Allora il ragazzo si fece coraggio e gli rispose: «You can’t always get what you want». Il resto è storia. La conclusione in crescendo è memorabile.

 

Led Zeppelin – Thank You (1969)

Unica ballata contenuta in “Led Zeppelin II”, Thank You è una struggente dichiarazione d’amore scritta da Robert Plant per la moglie. La chiusura è affidata a un lungo assolo di John Paul Jones alle tastiere, che nei secondi finali sembrano quasi spegnersi per poi riemergere da un irreale silenzio.

 

Derek and The Dominos – Layla (1970)

Uno dei brani più famosi della storia del rock classico, con un finale altrettanto celebre. In verità il pezzo è diviso nettamente in due parti. La prima, composta da Eric Clapton, contiene il riff principale. La seconda, scritta dal batterista Jim Gordon, si sviluppa in una coda di quattro minuti strumentali che hanno fatto la storia. Come dimenticarla, poi, in quella fantastica scena di “Quei Bravi Ragazzi”?

 

Black Sabbath – Iron Man (1970)

Non c’è nessun riferimento al favoloso mondo dei supereroi in questo capolavoro dei Balck Sabbath. Solo la fascinazione per l’intenso rapporto tra uomo e macchina, che proprio in quegli anni iniziava ad essere sempre più stretto e artisticamente stimolante. Potrei sbagliarmi, ma mi piace considerarla come la prima canzone stoner rock mai scritta. Nel finale cambia improvvisamente registro.

 

The Who – Baba O’Riley (1971)

Se esistesse una speciale classifica delle canzoni che contengono contemporaneamente la migliore introduzione e il miglior finale, Baba O’Riley conquisterebbe a mani basse il primo posto. L’incipit è frutto di una trovata di Pete Townshend, che all’organo sembra quasi riprodurre l’effetto di un synth. Lo stesso tema si ripete per l’intero brano, mentre la conclusione, dopo un assolo di violino, si regge su una maestosa progressione di Keith Moon.

 

The Doors – Riders on the Storm (1971)

Ricordo distintamente l’autista dell’autobus che mi portava a scuola ascoltare questa canzone in una mattina di pioggia torrenziale. Grazie a lui, la giornata svoltò in positivo. Più tardi scoprii che Riders on the Storm parla di un autostoppista assassino ispirato al serial killer americano Billy Cook. Nel finale Jim Morrison ripete più volte il titolo della canzone, mentre Ray Manzarek mescola uno dei suoi assoli blues allo scrosciare della pioggia in sottofondo.

 

Lou Reed – Satellite of Love (1973)

Uno dei singoli più famosi del leader dei Velvet Underground, scritto nel periodo della cosiddetta “corsa allo spazio”. Nella parte conclusiva il pezzo vanta la collaborazione dell’amico David Bowie ai cori. «Ha un senso melodico che è ben al di sopra di chiunque altro nel rock & roll – ha detto Reed di Bowie – La maggior parte delle persone non avrebbero potuto cantare alcune delle sue melodie. Prendete Satellite of Love. C’è una parte proprio alla fine dove la sua voce riesce a spingersi al massimo. È favoloso».

 

Iggy Pop & The Stooges – I’m Sick of You (1977)

Non è certo tra i brani simbolo della band, ma è in assoluto uno dei miei preferiti. I’m Sick of You non appare in nessuno dei tre dischi usciti tra il 1969 e il 1973, ma unicamente come singolo in un EP che comprendeva sostanzialmente le tracce scartate da “Raw Power”. Sporchissimo, morboso e marcio come pochi, questo brano alterna un riff alla Yardbirds a vere e proprie scariche elettriche. Si chiude così come era iniziato, dopo una cavalcata di quasi tre minuti.

 

Pink Floyd – Comfortably Numb (1979)

Bastano poche parole. Uno dei capolavori dei Pink Floyd, che termina con uno degli assoli più famosi e belli della storia del rock. Team Gilmour.

 

The Smiths – Panic (1986)

Uscita soltanto come singolo e inserita nelle varie raccolte della band, Panic fu registrata poco dopo il licenziamento di Andy Rourke per la sua dipendenza dall’eroina. Ha un finale provocatorio che sfocia nel coro “Hang the Dj”, cantato anche da un gruppo di bambini, diventato ormai un anthem.

 

Sonic Youth – The Sprawl (1988)

In oltre vent’anni di carriera i Sonic Youth ci hanno abituato ad outro di ogni tipo. In questo piccolo capolavoro cantato da Kim Gordon, la seconda parte del brano si snoda in una lunga coda strumentale diventata il marchio di fabbrica del gruppo. Chitarre fuori controllo in un’atmosfera carica di tensione.

 

Faith No More – Epic (1989)

Come suggerisce il titolo stesso, questo storico singolo tratto da “The Real Thing” possiede un finale “epico” entrato nell’immaginario degli adolescenti dell’epoca anche grazie al video che lo accompagnava. Dopo quattro minuti di magistrale rap-metal (che più tardi avrebbe ispirato la nascita del crossover), poche note di piano descrivono la morte di un pesce su una distesa di cemento.

 

Pearl Jam – Black (1991)

Un altro finale reso memorabile da un lungo assolo. In questo caso il protagonista è Stone Gossard, forse il miglior chitarrista dell’epoca grunge, capace di interpretare alla perfezione tutta la rabbia, il dolore e la malinconia espressa da Eddie Vedder in uno dei suoi testi più intimi e commoventi.

 

Red Hot Chili Peppers – Sir Psycho Sexy (1991)

Il brano più lungo mai scritto dai RHCP è anche quello con uno dei finali più emozionanti. Dopo cinque minuti e mezzo di scorpacciata sexy-funk, vira in un outro beatlesiano che punta tutto sull’emozione. Peccato che da una quindicina d’anni a questa parte la band californiana non sia più all’altezza di un tempo.

 

Guns’n’Roses – Double Talkin’ Jive (1991)

Sottovalutata e per lo più dimenticata, Double Talkin’ Jive è in realtà un piccola perla rimasta fuori dalla marea di singoloni tratti da “Use Your Illusion I”. Il doppio finale, con un occhio alla Spagna, è affidato come di consueto alla chitarra di Slash.

 

Nirvana – Territorial Pissing (1991)

Il 1991 pare l’anno dei grandi finali. Impossibile non citare l’urlo disperato di Cobain: “Gotta find a way, to find a way, when I’m there. Gotta find a way, a better way, I’d better wait”.

 

Rage Against the Machines – Know Your Enemy (1992)

E a proposito di urla, il monito di Zack De La Rocha lanciato sul finale di Know Your Enemy rientra di diritto tra gli outro più rancorosi che la storia ricordi: “Compromise! Conformity! Assimilation! Submission! Ignorance! Hypocrisy! Brutality! The elite! All of which are American dreams! (ripetuto otto volte)”.

 

Dinosaur Jr – What Else Is New (1993)

Se si parla di indie-rock, non esiste nulla di più struggente della combinazione tra la voce e la chitarra di J Mascis. L’outro di What Else Is New ne è la dimostrazione perfetta.

 

Radiohead – My Iron Lung (1994)

La fortuna di My Iron Lung, brano inserito sia nell’EP omonimo che in “The Bends”, è indissolubilmente legata a quella di Creep. La canzone parla infatti del clamoroso successo e al tempo stesso del limite rappresentato dalla maggiore hit del gruppo. My Iron Lung è anche il più grunge dei brani scritti dalla band inglese, con la chitarra di John Greenwood in primo piano a disegnare atmosfere che non sfigurerebbero nella tracklist di “In Utero”. Nell’ultimo minuto lo stesso Greenwood si prende tutto con il suo riff ossessivo e straborda in un assolo schizzoide.

 

 

Motorpsycho – S.T.G. (1996)

S.T.G., che sta per Sonic Teenage Guinevere, è uno dei brani più importanti di “Blissard”, caposaldo dell’indie-rock made in Europe degli anni ’90. Come spesso accade nel caso dei Motorpsycho, la traccia si sviluppa in tre fasi ben distinte: un’introduzione soft per chitarra e basso che lascia presagire il peggio, una scarica elettrica centrale con tanto di riffone alla Grand Funk Railroad e un atterraggio sul morbido che ci fa tirare un meraviglioso  respiro di sollievo lungo ben tre minuti.

 

Pantera – Floods (1996)

Un salto nel metal è sempre concesso, dai. Soprattutto quando si parla della conclusione di Floods dei Pantera, un pezzo epico (anzi, biblico, visti i riferimenti) pur rappresentando un’anomalia nella discografia della band. Si tratta infatti di una mezza ballad, che accontenta i palati più ruvidi soltanto in un paio di esplosioni in headbanging nella parte centrale. A rendere celebre il brano, però, è proprio il finale. Qui il compianto Dimebag Darrel si esprime in un outro di sola chitarra da pelle d’oca, nato in realtà da un giro di basso, carico di delay e capace di emozionare come pochi altri.

 

Mogwai – Like Herod (1997)

Like Herod, tratta dall’imprescindibile debutto dei Mogwai (“Young Team”), è uno dei cavalli di battaglia della band scozzese. In versione live sfiora addirittura i 15 minuti di durata. Ciò nonostante mantiene integra, e anzi ne accresce la tensione emotiva, tra i saliscendi tipici del genere. In chiusura, il brano implode in un’atmosfera post-atomica, fumosa e nerissima.

 

Wilco – A Shot in the Arm (1999)

A Shot in the Arm rappresenta la quintessenza di Jeff Tweedy e compagni. Una corsa a ostacoli tra rabbia e rassegnazione, che si conclude in volata senza mai tagliare il traguardo. E quell’ultimo verso, “What you once were isn’t what you want to be anymore”, ripetuto cinque volte in un climax ascendente, può graffiare il cuore.

 

dEUS – Instant Street (1999)

Lo confesso, quello di Instant Street dei dEUS è forse il mio finale preferito in assoluto. Tiratissimo, roboante, riesce a toccare corde che non ti sai spiegare. Puoi ascoltare anche mille volte, ma in quegli ultimi tre minuti ti verrà sempre un po’ di magone.

 

Archive – Again (2002)

Suggestiva, fortemente floydiana, incredibilmente emozionante, Again è stata lanciata come singolo di “You All Look the Same to Me”. Con gli esordi trip-hop ormai alle spalle, qui gli Archive mostrano tutto il loro lato sperimentale in una suite di 16 minuti di pura bellezza. Nell’ultima parte, dopo una parentesi atmosferica che parrebbe deflagrare nello spazio profondo, il motore ricomincia a girare fino alla chiusura.

 

Interpol – PDA (2002)

PDA è un altro di quei pezzi che hanno segnato la generazione indie-rock e del revival Anni Zero. Si chiude in modo epico con le chitarre di Daniel Kessler e Paul Banks aggrappate l’una all’altra e in costante ascesa.

 

Arcade Fire – Wake Up (2004)

Scritto da Regine Chassagne, Wake Up è uno dei tanti brani simbolo tratti dal disco d’esordio della band canadese. Nella prima parte si sviluppa come una cavalcata antemica, con tanto di coro da cantare a squarciagola, per poi cambiare improvvisamente registro nella seconda parte. L’effetto è divertito e spiazzante, nonostante il testo della canzone, come del resto l’intero album, abbia a che fare con la morte e la caducità dell’uomo. Dal vivo, poi, acquista una particolare potenza, anche emotiva. La mia versione preferita è quella suonata sul palco del “Fashion Rock 2005” con David Bowie.

 

The National – Slow Show (2007)

Forse la mia canzone preferita dei The National, contenuta nel disco che rappresenta il loro primo vero grande successo, “The Boxer”. Gli ultimi due minuti si snodano sull’intercalare di piano, batteria e voce, in un abbraccio tenero e avvolgente che riassume alla perfezione la personalità del suo autore.

 

Black Rebel Motorcycle Club – Beat the Devil’s Tattoo (2010)

Un mantra dal sapore tribale, immancabile durante le esibizioni live, che cresce lentamente arricchendosi ad ogni giro. Chiusura da cantare ad occhi chiusi fino allo sfinimento.