Monumentale. Questo il migliore aggettivo per descrivere il nuovo, ottavo lavoro dei Beach House, band di Baltimora diventata maggiorenne quest’anno. Diciotto brani per ottanta minuti, il tutto diviso in quattro differenti uscite scaglionate a un mese l’una dall’altra, fra novembre e febbraio. Questa scelta ha consentito ai fan di gustare piano piano le numerose portate, che sono sì fortemente legate tra loro, ma anche complesse da assaporare senza pause, data la loro natura tranquilla, spesso da ninna nanna.

Gli elementi che rendono subito riconoscibile il duo statunitense in mezzo a qualsiasi epigono suonano ancora forti e chiari, ma siamo comunque lontani sia dalla semplicità vagamente lo-fi di “Teen Dream”, sia dal crossover con lo shoegaze di “Depression Cherry”. “Once Twice Melody” sembra provenire da un mondo altro, è arioso, sospeso ed etereo, a tratti inumano, ma abitato da robot con un’anima, spesso più caldi di noi esseri umani.

La title track e la successiva Superstar ci portano subito in un mondo spaziale, da futuro rigoglioso e fiorito su un altro pianeta. Più epica nel suo cadenzare lento è invece Pink Funeral. Bellissima la velvetiana ESP, così come la lunga Over and Over : un’autostrada interstellare tutta da cavalcare.

Sunset è un corpo estraneo, figlio dell’underground americano dei Nineties e delle ballad acustiche dei Beat Happening, in Only You Know torna a sentirsi seppure per poco la chitarra elettrica di Alex Scally, Another Go Round è bubblegum pop rallentato e sacralizzato dall’organo, mentre Masquerade è un tuffo a piè pari negli Eighties.

Finale, che giustamente apre il quarto ed ultimo episodio dell’album, gode di una melodia celeste che ancora una volta esalta la voce di Victoria Legrand, mentre The Bells attualizza incredibilmente il suono tradizionale di uno slide per chitarra. La conclusione è affidata a Modern Love Stories e al suo incedere fra il marziale e il fluttuante. Come già detto in apertura, monumentale.

Andrea Manenti