shelt cremona

Quante volte ce l’hanno menata con la storia che da noi non c’è musica di qualità, che tutte le buone idee sono state esaurite in qualche decennio a caso del passato? Cazzate. Prima buona notizia: là fuori c’è un sacco di musica bella, molto bella. L’offerta è esageratamente ampia e, persino io, che non sono propriamente un onnivoro in fatto di generi, riesco a trovare quotidianamente nuovi ascolti, nuove emozioni. La seconda buona notizia è che le chitarre resistono, per di più in questo caso resistono a due passi da casa mia, vengono da Cremona, sono in tre e si chiamano Shelt.

Anche se non è sempre stato così. Fino a poche settimane fa erano comodamente presenti su tutti i soliti social e portali con un altro nome, finché non è arrivata una simpatica lettera di un avvocato luciferino ad intimarli di cambiare nome, che a quanto pare “Miele” era già stato preso, comprato, assicurato, con buona pace di Winnie Pooh. Non tutto il male però vien per nuocere, il piano B si rivela infatti una scelta molto azzeccata e, al netto degli sbattimenti che si porta dietro il dover cambiare nome praticamente ovunque, Shelt si accoppia ancora meglio al disco e alle canzoni.

Il disco, dicevamo, si chiama “Haven”, “our practice room, our safe zone where we can hide from everything and just do what we truly and wholeheartedly love: write and play music”, solo sei tracce, peraltro di pochi minuti, registrato in autonomia e inviato poi a Jesse Cannon sulla costa est per mix e master. Suona molto bene, lo sto ascoltando mentre scrivo, per la terza volta di fila (finisce alla svelta eheh), non mi sono annoiato e, soprattutto, credo proprio che lo ascolterò anche dopo aver finito questa recensione.

È un’ autoproduzione (etichette italiane, fatevi avanti) e nella cartella stampa si parla di dream pop, emo, country rock ed effettivamente è così, c’è molto in queste poche canzoni. Anche se non lo scrivono esplicitamente, questo disco è un piccolo riassunto del meglio del mondo indie americano, ci trovate tutto, o meglio, tutto quello che vale la pena.

L’unica band che citerò come confronto sono gli Yuck, che, come certamente saprete, non sono americani, ma là hanno sempre guardato. Ho l’impressione che gli Shelt facciano esattamente la stessa scelt-a, e il risultato è altrettanto valido, coglie nel segno. Non ci sono passaggi deboli, non ci sono nemmeno divagazioni sperimentali (è un male? no!). Melodia, bei suoni e tutta la nostalgia della vita di provincia tra campi di grano e piccoli centri urbani.

Carlo Pinchetti