Tre album per consacrarsi come una delle realtà del settore più apprezzate dei giorni nostri. Quindi, due eventi: l’uscita dal gruppo – con stretta di mano – del tuttofare Rostam Batmanglij e il passaggio a una major, la Sony. Che suonerebbero più come allarmi che altro.
Aspettative comunque alte per questo lavoro dei Vampire Weekend, il quarto in studio per i newyorchesi. Con un team a supporto e una pletora di ospiti che definire importante è dir poco: da Danielle delle HAIM (che dà la voce a ben tre – troppi? – brani) a Steve Lacy dei The Internet (in due tracce) passando per il poliedrico Mark Ronson, Childish Gambino e la comparsata, ancora lui, dell’amico Batmanglij. Laddove però Ezra Koening si ritrova, volente o nolente, a catalizzare tutta la luce su di sé.
Sarò il più possibile diretto: “Father of the Bride” non è un brutto lavoro. È tirato a lucido, sì, ma è delicato, schietto, genuino, senza allo stesso tempo difettare di personalità. Si fa riconoscere. Per quanto non ci siano particolari picchi, ci sono momenti effettivamente validi (How Long?, Sunflower, dove Koening gioca con la propria voce a fare un piccolo Meredith Monk, e la raffinata chiusura affidata a Jerusalem, New York, Berlin) ed altri – anche per via di un numero di tracce, 18, che di certo non si può definire ridotto – che finiscono per appiattirsi una sull’altra o per risultare quasi evitabili (Rich Man, My Mistake e Spring Snow, ad esempio). Non è un capolavoro, ma va giù con grande facilità, senza però scendere nella scontatezza più edibile: e a leggere Sony, in molti se lo sarebbero aspettati.
Le melodie di Koening sono, e questo era lecito attenderselo, il solito zucchero filato, e trasudano spontaneità, a tratti squisitamente primaverile, da tutti i pori: meno chitarre tintinnati (e questo ci manca terribilmente, inutile nasconderlo) per un ventaglio sonico che abbraccia più strumenti e permette incursioni in più sottogeneri, da scenari più esotici (l’uno-due inziale di Hold You Now e Harmony Hall) alla lieve psichedelia (la richiamata Sunflower, 2021), passando per il tex-mex seppur rivisitato di Sympathy.
Ci si poteva aspettare qualcosa di più? Sicuramente sì. Meno dilatato, più compatto ed energetico, avrebbe probabilmente avuto una resa ben diversa, va detto. Ma la presa, a sua volta, è diretta e assicurata, e criticare una potenziale deriva mainstream dei Vampire Weekend, signori, è un esercizio da destinare a ben altri nomi e ben altri lavori: “Father of the Bride” è aggraziato, ha la sua eleganza e ha una sua anima. E in casi come questo è forse cosa più saggia anteporre il piacere di ritrovarsi, al gradimento di un qualche stupore o di una piena soddisfazione.
Anban
