Con Una battaglia dopo l’altra (One Battle After Another), Paul Thomas Anderson torna a immergersi nei territori instabili del postmodernismo narrativo, riscrivendo e semplificando, ma senza svuotare, lo spirito di Thomas Pynchon. Dopo Vizio di forma, Anderson torna a maneggiare un materiale fortemente ideologico e letterario, ma stavolta lo fa con un occhio più accessibile al pubblico generalista. È il suo film più costoso, con un budget monstre da 120 milioni di euro, di cui 20 milioni sono stati destinati al protagonista Leonardo DiCaprio: un investimento chiave che ha convinto Warner Bros. a scommettere sul progetto. Il risultato è un film potente, stratificato, forse non sempre perfettamente armonico, ma che brilla in regia e montaggio, raggiungendo in quei due ambiti le vette del cinema d’autore contemporaneo. La storia è quella di Pat Calhoun (DiCaprio), militante del gruppo rivoluzionario French 75, e della sua compagna Perfidia (Teyana Taylor), che sotto ricatto finisce per diventare l’amante del militare ultraconservatore Capitano Lockjaw (Sean Penn). Dopo una rapina finita nel sangue, Perfidia entra nel programma protezione testimoni, il gruppo viene smantellato, e Pat fugge con la figlia Charlene. Sedici anni dopo, il passato torna a presentare il conto.

Già dalla sinossi si capisce che il film gioca su due piani temporali e due toni distinti: la prima parte è più criptica, ellittica, quasi dissonante; la seconda, dopo il salto temporale, diventa sorprendentemente lineare, con una narrazione più classica, azione scandita e un centro emotivo definito nel rapporto padre-figlia. Ma ciò che tiene insieme le anime del film, talvolta in tensione tra loro, è la regia impeccabile di Anderson e il montaggio chirurgico di Andy Jurgensen, che riescono a domare un materiale vasto, denso di sottotrame, registri e riferimenti.

La prima ora, ambientata in un’America lisergica e cupa, è puro Anderson: movimenti di macchina lenti ma inesorabili, uso rigoroso della profondità di campo, piani-sequenza che sembrano inseguire i personaggi piuttosto che guidarli. La regia non cerca mai di sovrastare la storia, ma la accompagna con una sicurezza rara. Alcuni momenti – come la rapina in banca, girata in una sola lunga inquadratura che alterna soggettive e campi larghi in un flusso quasi ipnotico – sono già storia del cinema contemporaneo.

Il montaggio di Jurgensen è l’altro grande artefice di questo equilibrio. Il modo in cui alterna piani temporali e toni, passando dalla tensione paranoica degli anni ’80 all’energia più intima e affettiva del presente, è magistrale. Lo spettatore è sempre tenuto sul filo, grazie a una gestione del ritmo che lavora sulla sottrazione e poi sull’accelerazione improvvisa, con esplosioni di azione o pathos che non sembrano mai gratuite, ma sempre perfettamente inserite nel disegno generale. La lunga sequenza finale dell’inseguimento in auto, con un uso vertiginoso dei dislivelli urbani, è una lezione di suspense e messa in scena, un dialogo continuo tra campo e fuoricampo che crea tensione e sorpresa con strumenti quasi invisibili.

Naturalmente, in un film di Anderson, la forma non è mai disgiunta dal contenuto. E se da un lato Una battaglia dopo l’altra è forse il suo lavoro più “narrativo”, dall’altro resta pienamente figlio di un autore che riflette su ideologia, controllo e identità. Il confronto tra Pat e Lockjaw, tra anarchia e ordine reazionario, tra la militanza cieca e la coercizione istituzionale, si specchia nel rapporto con Charlene, che rappresenta una nuova generazione meno dogmatica, più fluida, ma ancora assetata di giustizia.

E qui si inserisce un altro aspetto interessante: la rappresentazione delle soggettività marginali. Charlene (interpretata con sorprendente autenticità dalla giovane Chase Infiniti) è un personaggio non binario, sospeso tra le aspettative del padre e la necessità di trovare una propria voce. Ma anche le figure secondarie – dalla drag queen Povero Tony alle militanti afroamericane che guidano la resistenza – danno al film una freschezza che lo ancora al presente, pur affondando nelle ossessioni passate dell’America paranoica e repressiva.

Sul fronte degli attori, DiCaprio fa esattamente ciò per cui è stato pagato profumatamente: tiene il centro della scena, conferisce umanità a un personaggio che poteva risultare solo un fantasma del passato. La sua performance è solida, anche se a tratti appare un po’ trattenuta, quasi trattenuta per non “esondare” in un film già molto denso. Sean Penn, nei panni del Capitano Lockjaw, è invece sopra le righe, con un’interpretazione volutamente caricaturale che richiama il Quaritch di Avatar, mentre Benicio Del Toro gioca di sottrazione, quasi invisibile ma mai privo di peso. Regina Hall e Teyana Taylor regalano intensità e dignità ai loro ruoli, ma è, come detto, la giovane Infiniti a rubare la scena nei momenti chiave, incarnando quel futuro in bilico tra utopia e disincanto che il film vuole raccontare.

Jonny Greenwood firma una colonna sonora straniante, a tratti respingente, con trame avant-jazz e minimalismo dissonante. Una scelta deliberata: la musica serve da contrappunto, per evitare che il film diventi troppo “facile” da seguire o da decodificare, un modo per ricordare allo spettatore che sì, può godere dello spettacolo, ma che sta pur sempre assistendo a un film di Paul Thomas Anderson.

E qui arriva la nota forse più ambigua: Una battaglia dopo l’altra è un film che insegue il bilanciamento tra accessibilità e autorialità, tra chiarezza e ambiguità. Se da un lato conquista per coerenza visiva e fluidità narrativa, dall’altro rischia un certo appiattimento tematico, rispetto alla potenza enigmatica e spiazzante di opere come Il petroliere o The Master. È un film, insomma, che si muove tra forze contrapposte – come i suoi personaggi – e che forse non vuole davvero trovare una sintesi, ma restare in tensione, in conflitto.

In conclusione, Una battaglia dopo l’altra è un’opera imponente, non priva di contraddizioni, ma sostenuta da una regia e un montaggio che sfiorano il capolavoro assoluto. È il film di un autore che prova a confrontarsi col proprio tempo, rinunciando forse a parte della sua intransigenza per parlare a un pubblico più ampio, ma senza mai tradire del tutto la propria voce. Se è una battaglia tra cinema e mercato, tra arte e racconto, tra forma e contenuto… beh, Anderson la combatte con lucidità, coraggio e un talento che resta fuori discussione.