Dolan è arrivato al sesto lungometraggio e cerca di conquistare il grande pubblico con un film dal sapore autobiografico, come al suo esordio. “è solo la fine del mondo” spiega il filo della narrazione iniziata con “J’ai tué ma mere” per avvolgersi intorno ad un’età più adulta, dove i conflitti dell’adolescenza sono un ricordo e un miraggio che scorre dietro il vetro delle nostre lacrime. Tratto da una pièce di Jean Luc Lagarce, celebre commediografo francese, precocemente scomparso, ne conserva la nostalgia e la radicalità delle assenze e delle relazioni che il tempo lacera, rendendoci sconosciuti con lo stesso sangue.
L’ultimo lavoro di Dolan si struttura sulla nostalgia, restando sospeso sulle epoche passate e perse della vita. Noi sconfitti restiamo un mistero per e nostre famiglie, smarriti nelle sintonie e nelle dissonanze dell’ incontro. Cosa può essere dunque un pranzo? Quali rancori possono esplodere in qualche ora, se si torna a casa dopo dodici anni in una giornata infuocata?
Un fuoco di passioni, di incomprensioni, di dolori celati dalla rabbia scoprono l’impossibilità dell’incontro con chi è altro da noi, pur appartenendo alla nostra essenza. Tutto il film è pervaso da un’atmosfera soffocante, una claustrofobia climatica che si accende nella luce del tramonto, segnando il crepuscolo della vita di Louis, con la sua uscita di scena, verso nuovi e ultimi orizzonti e lo stesso Lagarce, in un suo testo scriveva: “Je vous écrivais. J’envoyais des lettres, mais le chemin est incroyablement long, tu ne peux pas te rendre compte : elles devaient peut-être se perdre en route ».
«é solo la fine del mondo » è la dichiarazione di una nuova maturità e della celebrità di un giovane che vuole dimostrare di essere cresciuto, ma che resta troppo concentrato a mostrarci il proprio talento perdendo a volte il filo del racconto. Tra alcune scene imbarazzanti, Cassel sopra le righe e Marion Cotillard che sembra Amélie Poulain, una meravigliosa Nathalie Baye, qualche lacrima e un evidente riferimento a Titanic (la mano dell’amato che segna un vetro appannato) il timbro di Dolan non lascia indifferenti. Anche il suo peggior film vive di intensità e di scene che al classicismo più raffinato (l’abbraccio con la madre, che si confonde nel nero dell’ombra) uniscono il pop più impensabile (non avrei mai pensato di emozionarmi sulle note di “Dragostea”), facendo innamorare o orripilare, come solo il grande cinema sa fare. D’altronde lo stesso Xavier una volta ha detto “Tout plutôt que l’indifférence”, e ci riesce sempre.

Il Demente Colombo