Sette anni di silenzio: un’eternità nel tempo delle band indie. Tanto è passato da Pillar of Na, l’ultimo lavoro dei Saintseneca. In mezzo, per Zac Little, c’è stato un deserto creativo, una stanchezza che somigliava più a un inverno interiore che a una semplice pausa. Kafka, nei suoi Diari, scriveva che «ogni parola scritta mi pare una menzogna se non nasce dal silenzio». Ecco, forse Little aveva bisogno proprio di quel silenzio per ritrovare la verità del suono. L’ha ritrovata con un pennello in mano, davanti a una tela bianca. Dalla pittura è rinato Highwallow & Supermoon Songs: un album che sembra dipinto più che suonato, un caleidoscopio di colori, sfumature e gesti che si trasformano in canzoni. Saintseneca, per chi non li conosce, sono l’anima folk e inquieta di Columbus, Ohio. Strumenti antichi – banjo, dulcimer, bouzouki – si mescolano a synth, campionamenti e rumori di mondo. È musica “americana”, ma vista da un altro pianeta: e non a caso Little ha coniato per questo suono la parola unamericana. È come se Dylan incontrasse i Radiohead in un sogno di Terrence Malick, o se O Brother, Where Art Thou? si fondesse con le atmosfere ipnotiche di The Tree of Life. L’album è enorme, quasi smisurato: 21 tracce per circa 80 minuti, divise in tre sezioni – la “terra” di Highwallow, la “luna verde-blu” Viridian Moon e la “luna cannella” Cinnamon Moon. Little dice che le canzoni principali sono come il paesaggio, mentre le due lune orbitano intorno, tirando e spingendo come satelliti emotivi. È un concetto che suona un po’ fantascientifico, ma che in realtà parla di come nascono le ispirazioni: alcuni brani vengono da terra, concreti, altri fluttuano nello spazio dell’immaginazione. Un po’ come in Solaris di Tarkovskij: lì il pianeta rifletteva i ricordi dei visitatori; qui la musica riflette la mente di chi la scrive. La prima parte, Highwallow, è quella più “umana”, più ancorata al suolo. Si apre con la title track, malinconica e vitale insieme, un inno alla resilienza. “You Have to Lose Your Hat Someday” e “Sweet Nothing” parlano di perdita e di tenerezza, di smarrimento e di piccoli ritorni. “Sweet Nothing”, nata durante la luna di miele, è la calma dopo la tempesta. C’è qualcosa di John Steinbeck in quei versi, la stessa malinconia delle campagne americane di Furore, dove la speranza resiste anche tra la polvere. Poi arriva “Non Prophet”, uno dei momenti più forti: «Your prophet ought not bend / But it must break even». È una frase che suona come un pugno – sembra scritta da un Bob Dylan arrabbiato con il sistema sanitario americano o da un personaggio di Breaking Bad alle prese con la colpa e la sopravvivenza. È una canzone che mischia Dio e capitalismo, fede e tasse, e ne fa poesia.

A metà disco c’è “Hot Water Song”, la vetta emotiva dell’album. Little canta “I keep heating up the same water” – e in quella frase c’è tutta la stanchezza del vivere, il gesto ripetuto fino alla nausea, come Bill Murray in Ricomincio da capo. Parte da solo, voce e chitarra, poi arrivano la lap steel e la batteria leggera, e il brano si apre come un quadro di Turner: da nebbia a luce. È un piccolo miracolo, il suono di qualcuno che torna a respirare. La seconda sezione, Viridian Moon, è quella che guarda verso il cielo. I suoni si fanno liquidi, la struttura si scioglie. “Battery Lifer” è una ballata sospesa tra elettronica e folk, un po’ come se Bon Iver avesse deciso di incidere una colonna sonora per un film di Hayao Miyazaki.

 

C’è una dolcezza fluttuante, ma anche la consapevolezza di essere in un mondo in cui la batteria – metafora di energia vitale – non dura per sempre. In “Long Winter”, malinconica e luminosa, si sente l’attesa di qualcosa che forse non arriverà mai: la neve come pausa, il silenzio come cura. È la parte più contemplativa, quasi mistica del disco. Come scrive Virginia Woolf in Le Onde: «Ogni cosa che si muove è un segno di qualcosa che non si può dire». Viridian Moon è proprio questo: un linguaggio che non parla, ma vibra. L’ultima parte, Cinnamon Moon, è il rientro nell’atmosfera. Qui le canzoni tornano più terrene, più dirette, ma cariche dell’esperienza accumulata. “Bitter Suite” è il momento rock, con chitarre che richiamano i sixties e una punta di grunge, come se Simon & Garfunkel avessero jammato con i Nirvana in un garage dell’Ohio. “Smoke Punching” è un ricordo degli anni giovani e confusi, di errori che tornano come fantasmi gentili. “I Don’t Know Why Double Birthday” chiude tutto con una preghiera laica: “You make a god / You better build mine nice”. È la resa e la rinascita insieme. Se l’album fosse un film, questo sarebbe il finale di Boyhood: una lunga strada, il volto del protagonista che cambia, e noi che ci accorgiamo che il viaggio era la meta. I testi di Little sono pieni di immagini: fiori che esplodono, vento che parla, stelle che cadono. “Hidden in the ground right now / A hundred-something blossoms begging to shout” sembra uscita da un libro di Walt Whitman o da un verso di Rilke.

 

E in effetti questo disco ha qualcosa del poeta tedesco: la fiducia nella trasformazione, nella forza di cambiare pelle. Anche musicalmente, ogni canzone è una metamorfosi: parte nuda e si veste poco a poco, come una creatura che cresce. L’uso di strumenti acustici e campionamenti di vento (registrato da un’arpa eolica che Little ha piazzato sul tetto di casa) dà al tutto una sensazione di mondo vivo, in ascolto. È un po’ come il vento che attraversa Il deserto dei Tartari di Buzzati – un suono che porta attesa, malinconia e un mistero che non si svela mai. Certo, non è un disco facile. È lungo, denso, e richiede tempo. Ma anche Infinite Jest lo è, eppure chi ci si immerge non vuole più uscirne. Highwallow & Supermoon Songs funziona così: ti sembra troppo all’inizio, poi comincia a parlarti piano, e alla fine non puoi più farne a meno. È come leggere Sulla strada di Kerouac dopo un viaggio notturno: senti che quelle parole sono anche le tue. È un album sul muoversi, perdersi, ritrovarsi. Sullo stare in bilico tra spirituale e terreno, arte e sopravvivenza. Forse l’immagine che riassume meglio tutto è quella del titolo: l’“alta palude” e la “superluna”. Terra e cielo, fango e luce, ciò che ti blocca e ciò che ti tira su. Saintseneca stanno in mezzo, e da lì fanno musica. Highwallow & Supermoon Songs è un disco di rinascita, ma anche di accettazione. Non urla, non si impone: cresce, si apre, respira. Come direbbe Leonard Cohen, “there is a crack in everything, that’s how the light gets in”. E qui, tra banjo e synth, tra versi e silenzi, quella luce entra a fiotti. In fondo, più che un album, è un romanzo di formazione in musica. Potrebbe stare accanto a Il Giovane Holden o a Chiamami col tuo nome, perché racconta la stessa cosa: il momento in cui ti rendi conto che crescere significa imparare a guardare. Zac Little ha imparato a guardare di nuovo, e la sua musica – finalmente – guarda con lui. Highwallow & Supermoon Songs è il suono di un artista che ha ritrovato il colore, e ce lo restituisce tutto