Non proprio per tempo ho visto il film del momento. Osannato a Venezia ( meritatissimo Leone D’oro, spero vincaOscar), il più apparentemente intellettuale dei film in circolazione è il più sincero, semplice e perfetto sotto ogni punto di vista.
Roma prende il nome da un quartiere di Città del Messico, dove Cuarón è cresciuto. È forse il suo film della vita, l’opera che prende il via dalle immagini dell’infanzia, scorrendo nelle vene e tra le trame dell’inconscio. Gli occhi del regista non sbagliano un’inquadratura, in una fotografia talmente sbalorditiva che ricorda gli scatti del migliore Salgado.
I critici hanno storto il naso, in voli pindarici di citazioni, in presunte imperfezioni (ma dove?) soprattutto nel tratteggiare il personaggio di Cleo. Quante balle si ha in testa, mi viene da dire, citando Guccini e quanto intellettualismo ruota intorno ad un film, che si vuole demolire perché non parla di cronaca, tragedie o perversioni. Perché “Roma” è un melò, vagamente neorealista (forse anche il titolo trae in inganno), con alcuni richiami a Fellini (la scena della festa!) ma la cui matrice mi porta verso i 400 colpi o alle donne della Nouvelle Vague.

Un celebre critico sul New York Times si è anche prodigato in acrobatiche critiche sulla vacuità della protagonista “the character of Cleo into a stereotype that’s all too common in movies made by upper-middle-class and intellectual filmmakers about working people: a strong, silent, long-enduring, and all-tolerating type, deprived of discourse, a silent angel whose inability or unwillingness to express herself is held up as a mark of her stoic virtue”. Cleo (Yalitza Aparicio), invece, parla con lo sguardo, con le sue parole essenziali, con le proprie azioni e attraverso l’amore che dona agli altri e che gli altri ricambiano, primi tra tutti i suoi bambini e la loro madre. Cuarón sembra perdutamente innamorato di lei.

Forse anch’egli ha pensato alle donne stereotipate di Fellini, a Claudia Cardinale di 8 ½, o piuttosto ai silenzi di un’altra Cleo, quella dalle 5 alle 7, al piccolo Antoine Doinel o all’onirico Orfeo Negro di Camus; ed anche Roma è un sogno, che si nutre del ricordo, sull’onda della nostalgia per la propria Heimat perduta (anche qui, d’altronde, incontriamo la cronaca di una giovinezza).

Scene memorabili, una dietro l’altra, con un bianco e nero che sembra di metallo, complice la pellicola. Lasciandosi cullare dalle immagini di un film che naviga tra i mari dei capolavori senza tempo, si approda una spiaggia al tramonto, su una zattera di corpi formati dalla famiglia, formata da due donne e quattro bambini. Sarà questo quello che importa?L’abbraccio, la solidarietà, l’amore? Non a caso il viaggio di ritorno, dopo la tempesta, è sulle parole di Shanti, in una pace ristabilita da due donne, costruita sul dolore dei figli degli uomini.

Distribuito sia al cinema che (a differenza di registi più snob) su Netflix, così tutti, anche chi non ama il buio della proiezione può godersi il film, finanziandolo e in ottima qualità.

Capolavoro totale.

Il Demente Colombo

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