Viaggiare, osservare, provare a capire. Prendere appunti, raccogliere immagini, stamparle in un ricordo e tradurle in musica. In “The hope six demolition project”, nono album in una carriera ormai più che ventennale, PJ Harvey conferma di non essere più “soltanto” una musicista. Non in senso stretto, almeno. Sono passati ben cinque anni dal capolavoro del 2011, “Let England shake”, un disco di tremenda bellezza che inaugurò il nuovo corso della Polly Jean impegnata, militante, indignata. Un documento di prezioso alt-rock per raccontare la tragedia della guerra e il coinvolgimento della sua Inghilterra in quegli orrori senza fine. In questo nuovo lavoro, la cantautrice del Dorset prova ad alzare l’asticella e allargare lo spazio. L’impresa è ardua e non sempre ci riesce, ma il risultato è comunque di alto livello.
Schermata 2016-04-28 alle 01.12.23Partiamo da un dato ormai acquisito: la malizia, la provocazione e lo scandalo di cui traboccavano i testi dei suoi primi album sono oggi un lontano ricordo. Restano la rabbia e l’urgenza di gridare al mondo di darsi una svegliata. Non più con il distorsore e il cuore in gola (qualche scoria brucia ancora in “Ministry of defence”), ma con il piglio di una viaggiatrice armata di chitarra acustica, un mucchio di world music in valigia e un coro gospel pronto ad accompagnarla (“River anacostia”). Ecco, PJ Harvey nel 2016 studia da reporter e scrive da artista. È stata in Kosovo e in Afghanistan. Ha visto e toccato con mano i luoghi dell’odio e della repressione. È stata sul posto, come si dice, ed è tornata per raccontarlo. Sulla strada del ritorno si è fermata a Washington, in un vasto quartiere popolare ferito dal progetto “Hope VI”. Una forma di speculazione edilizia mascherata da riqualificazione, che ha portato alla demolizione delle vecchie strutture e all’allontanamento degli abitanti più poveri (la “Community of hope” citata nella prima traccia).

Dallo sdegno per questa operazione è nato il titolo e soprattutto il messaggio del nuovo disco. Un’opera costruita sotto gli occhi di pochi fortunati fan, che hanno potuto assistere ad alcune delle sessioni di preparazione organizzate alla Summerset House di Londra, all’interno di una vera e propria installazione. Alle registrazioni hanno partecipato diversi musicisti di livello, tra cui i nostri Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa, Afterhours) e Alessandro Stefana (Vinicio Capossela, Marco Parente), oltre al solito John Parish, già più volte al fianco di Polly Jean. Lo spirito dei Bad Seeds aleggia sempre e comunque (“The Wheel”). Anche per questo, “The hope six demolition project” è un disco che senti crescere ascolto dopo ascolto.

Paolo Ferrari