Assunto primo: i Pearl Jam sono oggettivamente una delle migliori band della storia del rock.
Assunto secondo: dopo il primo esaltante decennio, comprensivo di almeno due riconosciuti capolavori quali l’esordio “Ten” e “Vitalogy” del 1994, la band di Seattle ha vissuto un po’ di rendita consegnando al mercato almeno cinque album, quest’ultimo compreso, non all’altezza dei predecessori.

Tuttavia, veri e propri scivoloni non ce ne sono mai stati, tutti questi lavori godono infatti di almeno un paio (ma spesso anche più) brani degni della fama del quintetto.

I Pearl Jam di “Gigaton” non sono molto diversi da quelli di “Lightning Bolt”, “Backspacer”, del disco omonimo o di “Riot Act”. Fra classicismo grunge, attitudine rock e un poco di sperimentalismo, anche nel 2020 gli ex ragazzi d’oro fanno ancora il loro sporco lavoro.

L’inizio dell’album è trascinante. Si parte con la botta di Who Ever Said, già pronta per scaldare gli animi nei futuri concerti. Superblood Wolfmoon è un buon pezzo garage carico, mentre l’altro singolo Dance of The Clairvoyants sembra omaggiare i Talking Heads. Nella sua retro-novità è probabilmente la miglior canzone del lotto.

Quick Escape richiama alla mente i Led Zeppelin di Kashmir e si esalta nell’assolo finale di Mike McCready, Alright è una ballad atipica, Seven O’Clock un mid-tempo dalle sonorità liquide.

Con le successive Never Destination e Take the Long Way, Eddie Vedder e soci cercano, in verità senza troppa convinzione, di raccogliere qualche cartuccia dal loro passato più punk, Buckle Up è invece straniante ma senza pregi.

Eccoci quindi alla tripletta acustica (o quasi) finale: il blues claudicante Comes Then Goes, la bucolica ma anonima Retrograde e la conclusiva River Cross, questo sì un emozionante e sentito gioiellino.

Andrea Manenti