copertina del disco

All’alba dei cinquant’anni e a un anno dalla reunion dei Racounters, torna Brendan Benson con questo “Dear Life”, suo settimo disco solista. E’ passato parecchio tempo dall’ultimo “You Were Right”, ma l’amore per il brit pop è ancora forte, sebbene stavolta le sonorità siano più vicine a quelle dei Blur di “Parklife” o “The Great Escape” piuttosto che a quelle dei Libertines. In questo nuovo lavoro è ovviamente forte anche l’influenza dell’amico Jack White, mentre l’ultima novità è un leggero e mai banale utilizzo dell’elettronica.

Di sicuro c’è che Brendan Benson è un ottimo scrittore di canzoni, e anche in queste undici tracce dimostra tutto il suo talento, fino a superare per semplicità, simpatia e scanzonata melodia le dodici del recente “Help Us Stranger” dei Racounters, un album dal quale forse ci si aspettava un po’ di più.

In pezzi come I Can if You Want Me to, Half a Boy (Half a Man) e Freak Out trasuda il rock’n’roll dei Seventies. Bellissime le ballate: Good to Be Alive, l’inglesissima title track, la pulpiana Baby’s Eyes ed Evil Eyes, nelle quali Benson dimostra tutte le sue qualità da songwriter. Richest Man e I Quit sono molto legate al pop schietto e grezzo dei Sixties (quelli sempre inglesi, fra Who e Kinks), mentre I’m in Love ha un’anima distorta quasi punk. Chiude Who’s Gonna love You?, una stupenda ballata imparentata nel sound con il soul contemporaneo della black music statunitense. Parlando degli ultimi anni: Brendan Benson 1 – Jack White 0. Troppo cattivo?

Andrea Manenti