“A Certain Trigger” del 2005 era un album che aveva le carte in regola per distinguersi, anche in mezzo a un’ondata assai corposa di indie-rock proveniente dall’UK; i Maxïmo Park erano diventati un nome di punta a fianco di band come Franz Ferdinand e Libertines, vendendo una mezza milionata abbondante di copie. Dentro c’era una manciata di canzoni brillanti che definivano in maniera forte uno stile e consentirono alla band di Newcastle di ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto.

“Our Earthly Pleasure” del 2007 imbroccava ancora un paio di singoli all’altezza della prima uscita; fu una mezza conferma, la band c’era, forse meno ispirata, ma il secondo album si sa com’è, ci ha fatto pure una canzone Caparezza, per dire. Poi la scomparsa dai radar. I Maxïmo Park sono serviti perlopiù come argomento inoppugnabile per i detrattori di quel genere, l’indie rock britannico della seconda metà degli anni 2000. E a ragione, visto la fine che hanno fatto la maggior parte delle band, che al tempo sembrava dovessero salvare le sorti della musica.

“Risk To Exist”, che è il loro sesto lavoro, prima di tutto mi folgora ricordandomi all’improvviso che nel frattempo ci sono stati altri tre album dei Maxïmo Park, passati completamente inosservati. Di certo è un lavoro che non fa cambiare idea a chi non li poteva soffrire già al tempo di singoloni da classifica come Apply Some Pressure. Piuttosto rinvigorisce i ragionevoli dubbi di chi da allora se li era persi un po’ di vista. Non si era perso poi un granché, evidentemente.

Le 11 tracce, dove le tastiere dilagano melliflue, faticano a trovare la strada per restare impresse nella memoria dell’ascoltatore. Ben poco può il taglio politico dei testi, visto che ormai un po’ di anti-trumpismo e anti-brexitismo non se lo nega quasi più nessuno. Oppure diciamo che la protesta politica in musica nel 2017 passa attraverso generi un po’ più efficaci del synthpop sbiadito e tramite band un po’ più agguerrite dei posatissimi Maxïmo Park.

Pochissimo può la produzione laccatina di Tom Schick, peggiorando quella patina fastidiosa che urla anni ottanta, posticci come le spalline sotto le giacche dei Duran Duran. Nulla purtroppo aggiunge la voce di Mimi Parker dei Low, presente in alcuni brani.

Si arriva sbuffando alla fine dell’album, e alla fine si salvano con una sufficienza abbastanza stiracchiata un mezzo plagio dei Pixies, Work And Then Wait e la spavalda e allegrotta Get High (No, I Don’t). Ma siamo lontani dai tempi migliori. In Risk To Exist e The Reason I’m Here sembrano la parodia dei Maxïmo Park di dieci anni fa. Fra l’indigesto e lo scialbo il funk-pop bianchiccio di The Hero, fiacchissime pure Respond To The Feeling e What Did We Do To You Deserve This?, che oltre a essere traccia di apertura è la domanda che rivolgerei quasi commosso a Paul Smith e compagnia cantante in merito all’album.

Nella migliore delle ipotesi un album dimenticabile. Continua la deriva verso una musica con meno chitarre e più synth, che vorrebbe essere i Depeche Mode ma ricorda più i Johnny Hates Jazz o i Simply Red quando va bene. Continua invano la ricerca della verve che gli fece fare il botto nel 2005. Ma sul loro grande ritorno in un futuro prossimo non ci scommetterei del denaro, se questa è l’aria che tira.

Andrea Bentivoglio