Il tredicesimo album dei Maniac Street Preachers ricorda molto la socialdemocrazia contemporanea: formule nate per sfidare lo status quo che ormai scaldano appena appena i cuori di chi ha la pancia piena, figurarsi di chi la deve riempire e brucia calorie come un treno a vapore. Una raccolta lunga, troppo lunga, arrangiata, troppo arrangiata, ben prodotta ma forse iperprodotta; un album che prova a tenere assieme il rock per il popolo che sanno fare bene gli americani, con ambizioni orchestrali da pop sofisticato e risutalti che a volte lasciano perplessi.
 
Però forse essere troppo severi in questi casi è poco corretto, forse sarebbe giusto riconoscere i lati positivi qui presenti, dato che ce ne sono: un cantato rock tradizionale ma sincero, sentito ed elegante al tempo stesso; la varietà delle proposte, perché pur restando all’interno di regole ben codificate si passa dal rock alla ballata, cercando di sviluppare le varie tonalità di grigio che stanno tra questi due estremi.
 
Ma il peccato originale resta, inutile voltarsi dall’altra parte o risolverla con due atti di dolore: sull’hard rock celestiale e muscolare che costituisce le fondamenta della prosposta dei Manic si edifica una sovrastruttura di arrangiamenti orchestrali e ambizioni che i nostri non riescono a maneggiare con cura. Perché condire di archi canzoni rock o anche ballate che possono risultare più a fuoco senza orchestazione ulteriore? Alla fine le tracce più riuscite sono quelle più semplici, come Dylan & Caitlin, che ricorda il rock solare e un po’ ruffiano del migliore Elton John, o Broken Algorithms, con un riffone alla Runaways che arriva dritto al punto. Un disco indeciso tra le radici e le ali, che finisce per restare a terra, nell’ordinario.

 

Alessandro Scotti