C’è poco da fare. Si può anche far finta di niente, ma Vasco Brondi è ormai entrato di diritto nella ridotta schiera di cantautori che negli ultimi dieci anni sono riusciti a recuperare, plasmare e imporre un approccio alla scrittura che ha fatto scuola. La sua è sempre stata una poetica difficile da accettare, per certi versi indigeribile. Il segreto per vedere quel che si nascondeva dietro le abbaglianti Luci della Centrale Elettrica doveva passare necessariamente attraverso un complesso meccanismo di assorbimento. Era un continuo alternarsi tra la dilatazione del linguaggio oltre i limiti della metafora, del cut-up estremo, e la contrazione in un mondo troppo chiuso, troppo provinciale, per rappresentare tutti quanti. Con “Terra”, quarto album in studio prodotto insieme a Federico Dragogna dei Ministri, il cantautore emiliano arriva a una svolta che in pochi si aspettavano.

L’universo descritto da Vasco Brondi non è più un’accozzaglia di rottami umani e periferie denuclearizzate. Superati “questi cazzo di anni zero”, lo sguardo si allarga e tende a fagocitare immagini che ci portano ben oltre le “spiagge deturpate” della Romagna. Se nei primi tre album la mente volava in luoghi sperduti tra le campagne del conterraneo Giorgio Bassani e gli orrori ballardiani di ciminiere, centri commerciali e macchine sfasciate, qui si viene catapultati in uno scenario che chiunque, oggi, può osservare. Suoni, abitudini e persone si mescolano sulla stessa Terra come sulla linea 90 dell’autobus. La sabbia del Sahara e gli interessi dell’Eni in un unico viaggio disorganizzato. Ognuno con le proprie paure e i propri “confusissimi sogni” da realizzare. Dalla Terra nasce nuova vita, ma “Terra” è anche il grido di chi dal mare vede finalmente la salvezza (Waltz degli scafisti).

L’amalgama di emozioni si traduce perfettamente in un suono ibrido e spiazzante per chi è abituato alle strutture scarne degli esordi. La tradizione italiana si fonde in quella balcanica, nei ritmi tribali africani, nelle tablas indiane usate in quantità, nei cori stratificati. Un sound tutto sommato compatto, che per la prima volta dà l’impressione di un vero e proprio collettivo di musicisti, di un insieme di colori come quelli usati da Ugo Rondinone nell’opera di land art ritratta in copertina. In questa etnia immaginaria colpita da eventi epocali (Moscerini), spasmi personali (Chakra) e nuovi mostri (Iperconnessi), la penna di Brondi si districa quindi tra le categorie del potere e del poter fare. L’incubo odierno è che la prima, intesa come pre-potenza, annienti la seconda, intesa come possibilità.

Questa paura, però, si rivela uno spauracchio. A Forma di Fulmine, il brano che apre il disco fornendone la chiave di lettura, è un inno alla gioia che ci apre gli occhi su come sgomberare il campo dall’instabilità del vivere. Le necessità ci paralizzano nell’angoscia finché non ci accorgiamo di poter risorgere e “fare caso a quando siamo felici”. Sguazzare nel marasma generale significa anche trovarsi proprio lì, “dove sono possibili le cose impossibili”, dove essere vulnerabili è un superpotere. È in questo senso che “Terra” esce dalle barricate del provincialismo. Per scoprire che Toronto, in fondo, è soltanto una Varese più grande. Che l’acqua si impara dalla sete.

Paolo Ferrari