Ritorna più gagliarda che mai “5 Canzoni Bomba”, la rubrica in cui vi segnaliamo i cinque migliori brani usciti questa settimana. Lunghi mesi sono passati, un’intera estate fatta di tre stagioni di concerti condensate in una sola, che hanno reso l’Italia il paese dei balocchi di ogni gig goer, ma soprattutto tantissimi bei dischi composti da altrettante belle canzoni hanno fatto capolino nei nostri ascolti quotidiani. Il momento è giunto per tornare a segnalarvele di volta in volta. Pronti? E allora, si riparte…

 

Alvvays – After The Earthquake

Qua purtroppo sono di parte: gli Alvvays sono uno di quei gruppi pupilli che ringrazio di aver scoperto e seguito sin dagli albori. Ne amo voce, strumentazioni, reference, copertine, testi. Una di quelle band perfette che ti rendono sempre orgoglioso come ascoltatore e appassionato. Per questo terzo ed esasperato disco intitolato “Blue Rev” (una bibita per teenager canadesi a cavallo tra i milleni) c’era un’attesa spasmodica per chiunque sia coinvolto con questa band. Non solo occorre almeno pareggiare quel piccolo capolavoro di “Antisocialites”, impresa già di per sé non facilissima, ma occorreva fronteggiare pure furti di demo, cataclismi (appartamento con strumentazione allagato) e la solita pandemia che ormai è un leit motiv della musica degli ultimi due anni e mezzo. Succede così che gli Alvvays cambiano due elementi, si chiudono in uno studio, attaccano i jack e suonano tutto in presa diretta dritto sui tape. Due take per brano e basta: pubblichiamo così. Un approccio analogico che viene emanato da ogni secondo delle 14 varigatissime tracce di questo nuovo disco, che comunque non si discostano tanto dal format solito di questa bella band: dreamp pop, showgaze, punk, indie rock fatto e finito. I singoli di anticipazione hanno fatto pregustare le impressioni, After The Earthquake le ha confermate. Che bello.

 

Sorry – I Miss The Fool

Avanti con una band che fa della vocalist femminile uno dei tratti distintivi del proprio sound. Rimaniamo in ambito smaccatamente indie-rock, ma questa volta col duo londinese Sorry, che tanto bene aveva fatto parlare col primo “925” (copertina audace). Il disco è una sorta di concept composto da brani-nenie che affrontano tutti uguale tematica: il recupero emotivo da un heartbreak di quelli che ti fanno rimettere tutto in discussione, che è quello che, fatalità, è accorso a Lorenz e O’Bryen. Una sorta di diario su come sopportare il rancore, metterselo in tasca e provare a superare l’inedia di un fresco disastro sentimentale. Emblematica fin dal titolo a tal proposito I Miss The Fool, una cantilena che cresce piano e piano, pur zoppicando, ma che alla fine ce la fa a esplodere in un deciso autoconvincimento che sfocia pure in un’aria operistica, a ricordarci che non bisogna mai rinunciare alla propria bellezza interiore anche se ti manca quella persona ora detestata.

 

Disq – If Only

Dritta dritta da un’altra seconda prova è questa If Only, tratta da “Disperately Imagining Someplace Quiet” dei Disq. Un gran bel pezzettone senza fronzoli che ricorda molto i Raplacements o comunque parecchio alt-rock americano a metà tra college anni ’80 e one hit wonder spaccaclassifica anni ’90. Abbiamo quindi un giro d’accordi bello deciso da imitare con le mani, una strofa viscosissima e un ritornello pieno zeppo di topoi narattivi del genere. E pensate un po’: c’è pure l’assolo di chitarra!

 

Broken Bells – Into The Blue

Atteso e assolutamente preannunciato ritorno sul lungo per il duo composto da James Mercer e Danger Mouse dopo 8 anni, anche se il progetto non ha mai formalmente cessato di esistere con sporadiche pubblicazioni extra LP. Molti anni sono passati dall’ultimo “After the Disco” e ancora di più da quel debutto che aveva attirato le attenzioni di molti. Inutile girarci attorno: il disco suona esattamente come ce lo aspettavamo e da come ci aspettiamo che suonino i Broken Bells, che rimangono pur sempre un side project per ambo le personalità capaci di infondere un tocco inconfondibile delle loro produzioni maggiori in questo disco. Non servono dunque molti preamboli su Mercer e Burton: così è e così è giusto che sia, questo festival di psichedelia classica, soul, melodie pulitissime, produzione cinematografica e vintage. La prima traccia che fa da title track all’opera è perfettamente orchestrata e summa di tutto questo e viene qui proposta. Bentornati e, perché no, a presto sotto palco.

 

Fever Ray – What They Call Us

Ok, se fino a questo momento abbiamo segnalato brani assolutamente validi, ma che potrebbero essere definiti dai più cinici come “riempitivi” se avulsi dal contesto degli album da cui sono tratti (nessuno di questi, fateci caso, è effettivamente un singolo), ecco che arriva il momento di mostrare i muscoli con un brano che si candida a diventare uno di quelli dell’anno da mandare a memoria o che comunque verranno attenzionati nei mesi a venire. Prima canzone come Fever Ray per Karin Dreijer in 5 anni, è una marcia lugubre giocata su pochi suoni ma tutti misurasti con precisione alchemica in grado di creare un costante senso di minaccia e tensione, salvo non esplodere mai veramente in un finale degno di tutta la violenza sonora accumulata. Il video di vaga ispirazione matrixiana incarna perfettamente quello che il suono evoca, creando un esempio di audiovisivo da saggio. Eventuali set live da attenzionare con abnegazione.

 

A cura di Andrea Fabbri

 

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