Schermata 2015-12-18 alle 15.18.32Forse i Kill the vultures sono sempre stati un gruppo punk hardcore camuffato da hip hop e blues: un suono in bilico tra l’industrial e il Tom Waits più rumorista, l’incedere da b-boy e la tecnica di composizione fatta di campionamenti cool jazz sono lo specchietto per le allodole, il gheriglio nascosto è invece una poetica di grida, denuncia e insofferenza innalzati su declamazioni e sonorità dissonanti.

Nei primi 3 album i Kill the vultures hanno evocato paesaggi pericolosi, metropolitani e notturni, ma già a partire da Ecce Beast, il loro terzo e ultimo lavoro di ben 6 anni fa, l’approccio si era fatto più compromissorio, con basi più patinate e ambientali sovrastate da un rapping meno disperato, più prosaico e parlato. Questa tendenza è ancora più forte in Carnelian, che ci fa riproporre l’affermazione iniziale in forma dubitativa: i Kill the vultures sono sempre stati un gruppo punk hardcore camuffato da hip hop e blues? Forse no, e forse non è importante, resta che questo sembra il loro disco dai suoni e intenti meno rock.

La ragione è che pare cambiato il materiale di costruzione che il duo di Chicago utilizza per la loro musica fortemente cinematografica e visiva: prima venivano in mente i classici mattoni rossi da metropoli americana, quelli dei vicoli notturni con i tombini da cui esce fumo bianco immortalati in tanto cinema a stelle e strisce; ora abbiamo materiale meno organico e deperibile, meno ruggine e più vetro e metallo cromato. L’atmosfera è meno ansiogena ma rimane senz’altro gelida, insomma conviene sempre tenere gli occhi aperti quando ci si muove su certe strade.

Dal grido esistenziale del giovane siamo passati al disincanto dell’adulto, con un risultato finale che mi riporta al tono disilluso e apocalittico di Hell on Hearth dei Mobb Deep, disco di quasi 20 anni fa che varrebbe la pena ascoltare in abbinamento a questa raccolta di canzoni.

Alessandro Scotti