Due anni dopo il capolavoro “To Pimp a Butterfly” e uno dopo la raccolta di “pezzi scartati” “Untitled Unmastered”, torna Kendrick Lamar. Il rapper di Compton stavolta decide di abbandonare la strada recentemente intrapresa tra le malie del jazz per riavvicinarsi all’universo hip-hop. Quattordici brani per altrettanti grandi testi che raccontano della personale vicenda fra peccato e redenzione, morte e vita eterna dell’artista afroamericano, uno dei più grandi (se non il più grande) paroliere di questa generazione.

Rispetto al passato più recente il suono si scarnifica, cercando le proprie fondamenta nel soul, nel funky, ma anche e soprattutto nel rap, spesso e volentieri nel suo sottogenere trap, un vero e proprio marchio di semplicità.
Si parte con l’introduzione piena d’atmosfera di Blood per passare subito dopo alla potentissima Dna. L’album prosegue senza cadute, eccezion fatta probabilmente per i due featuring con Rihanna e Zacari: essenzialmente un tentativo da parte di K-Dot di entrare nel mondo mainstream.

Nettamente meglio l’altro feat., quello con gli U2 in XXX, sorta di mini opera black sullo stato americano, qui confrontato con la stessa biografia di Lamar. Il resto, dai brani più melodici (Yeah, Fear e God) a quelli più sperimentali (Element, Feel e Lust) a quelli più strong (Humble), non fa altro che confermare ciò che “umilmente” lo stesso Kendrick Lamar dice nella conclusiva ed autobiografica Duckworth parlando di se stesso: “Chi avrebbe mai pensato che il rapper più grande di sempre sarebbe nato da una coincidenza?”. Per sapere quale sia la coincidenza non vi resta altro che andare ad ascoltarvi questo ennesimo grande album.

Andrea Manenti

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