I James sono decani dell’indie-pop. In questo nuovo disco, “Living in Extraordinary Times”, mantengono i loro tradizionali suoni saturi e tronfi, ma imbastiscono melodie e armonie che si allontanano dal classico canovaccio rock, a favore di una maggiore varietà di soluzioni. In particolare iniettano nell’esangue zombie brit-pop un po’ di teatralità da vaudeville e certi richiami celtici, che rendono le canzoni piacevoli e adatte a un pubblico quanto mai vario.
Hank è la prima traccia, una marcetta celtica come l’avrebbe fatta Marc Bolan se gli fosse mai venuto in mente di cimentarsi in una tale impresa. Coming Home è un pop leggero con una spinta glam, ricami di tastiera vagamente lounge e un cantato arrembante. Leviathan è una ballata talmente classica nel suo genere da risultare impalpabile, da sembrare una cover o un plagio. Il ritmo abbastanza rutilante fa pensare ai peggiori U2, quelli più bolliti.
Heads sembra pensata per un musical per famiglie sui pirati, cambia direzione come i personaggi di un racconto picaresco e ha un tono eroico ed ecumenico. Many Faces è uno scanzonato folk acustico, con arpeggi di sei corde, intarsi di fiati e di tastiere. Il ritornello dal tono consolatorio aumenta la sensazione di trovarci di fronte a una prova da vaudeville. L’arrangiamento fin troppo cangiante ingrandisce la forza teatrale e visuale di questa canzone, che sembra davvero pensata per accompagnare degli attori su un palco.
How Hard the Day è la traccia più sensuale e languida tra quelle presenti, ma il refrain di nuovo fa pensare a un coro da pub. La title-track parte con una patina di ghiaccio che la tiene sotto zero, per la base di tastiera geometrica, la batteria asciugata e la chitarra vagamente flangerata, ma poi cambia pelle, di nuovo optando per la ballata enfatica, ariosa e teatrale. Picture of This Place è vagamente minacciosa nell’atmosfera, ha un incedere diritto, un cantato sussurrato, un tono da rock carnale. Le hit del primo Gary Numan avevano una poetica e una resa sonora simile, se cercate dei riferimenti.
Hope to sleep ha un attacco confidenziale, quasi da crooning ma accomodante, un ritmo vagamente esotico e un effetto finale da gran cerimoniere dell’intrattenimento. Insomma, un fascino un po’ da Bryan Ferry e un po’ da Marvin Gaye nell’autunno delle loro carriere. Better Than That gioca la carta del classico funky bianco made in UK, in questo caso grazie alla ritmica vagamente drum & bass; ma il coro yodel che esplode nel classico giro in 4/4 di chitarra e basso getta la maschera: siamo sempre nel solco della tradizione e del decoro in onore di Sua Maestà.
Mask ripropone un’impalcatura indecisa tra folk celtico e classica ballata pop, e di nuovo vengono in mente gli U2 meno ispirati e più bolsi. Whats It All About chiude il disco disegnando un paesaggio grigio e sintetico, un po’ Visage e un po’ New Order, dove il canto ha un tono indignato e una sinuosità soul. Il ritornello si scioglie in una chitarra dissonante prima e disturbata poi, mentre la coda riarrangia il tutto per solo chitarra acustica e voce, come se si trattasse di un remix liofilizzato, di cui non capiamo sinceramente il senso.
I James si confermano fedeli alla linea, ma capaci anche di sfruttare le diverse tradizioni folk e pop del Regno Unito, ma forse un po’ più di semplicità e meno magniloquenza quasi progressiva gioverebbero al risultato finale. Più che un disco una buona idea regalo per ascoltatori svogliati.
Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.