Emanuela Drei è una vecchia conoscenza. L’abbiamo vista calcare i palchi di tutta Italia prima con gli Heike Has The Giggles e poi con His Clancyness. Adesso si è messa in proprio e ha deciso di dedicarsi alla carriera da solista. “Giungla” è il suo nuovo nome, “Camo” è la sua nuova veste. Abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lei prima della sua data al Rock’n’Roll di Milano e questo è quello che ne è venuto fuori.
Come hai deciso di dedicarti all’attività da solista? Cosa ti ha spinto a fare questo passo?
In realtà mi ci sono un po’ ritrovata. L’idea iniziale era quella di formare una band, ma per vari motivi non è andata. Sentivo che stavo perdendo tempo e avevo una forte esigenza di suonare. Avevo pezzi che sentivo molto miei e volevo portarli in giro. Così, dal giorno alla notte, ho azzerato tutto. Dovevo trovare un modo di fare questa cosa. Ho riempito una valigia di pedali, ho preso la chitarra e sono andata in studio. Da quel momento ho capito che sarei andata da sola anche sul palco. Non volevo dei turnisti e mi è sembrata la scelta più naturale.
Perché hai scelto il nome “Giungla”? E “Camo” a che cosa si riferisce?
Innanzitutto volevo che il nome fosse in italiano. Volevo una parola che mi suonasse vera. Sono italiana e cercavo una parola che sentissi mia. Mi piaceva l’idea di disordine e di naturalezza che la giungla comunica. Da un lato l’istinto, dall’altro ricchezza e complicatezza, presa nel suo senso positivo. “Camo”, invece, sta per camouflage. È l’immagine di un pattern militare che avevo in testa mentre registravo. Tutti i pezzi hanno un’ispirazione e un sound differente, quindi pensavo che un pattern, in cui elementi distinti formano un’unica cosa, rendesse molto bene l’idea. Poi, visto la scelta drastica di andare in giro da sola, mi piace pensare che questi pezzi che ho scritto si siano messi una piccola divisa camo per scortarmi in giro in modalità da battaglia, con solo un beat pulsante e spesso violento. Rispecchia molto l’attitudine dell’EP.
Quattro pezzi molto diversi tra loro, ma cantati tutti in inglese. So che hai scritto qualcosa anche in italiano, pensi che continuerai a farlo?
Ho sempre scritto sia in italiano che in inglese, anche quando suonavo con la gli HHTG. Ma l’inglese è la lingua con la quale mi muovo meglio nella musica, quanto meno per una questione di suoni e di ascolti che mi hanno influenzato. Mi è capitato di iniziare a scrivere anche in italiano e penso di essere riuscita a trovare un sound particolare, una direzione ben precisa. Non mi è suonato strano. Alla fine è la mia lingua, esiste anche questa parte di me, ma per adesso non ho in mente una svolta totale in questo senso.
Parliamo di produzione. L’EP è stato prodotto da Federico Dragogna dei Ministri. Com’è che è nato questo sodalizio? Come ti sei trovata in quest’avventura con lui?
Con Fede, ovviamente, mi sono trovata da dio. È un super amico, ci conosciamo da una vita. Con gli Heike abbiamo aperto un sacco di concerti per i Ministri. Lui c’è stato nella fase in cui volevo formare una band, ma soprattutto nel momento di stallo. È stato di grande aiuto, mi ha dato il coraggio e mi ha convinto di potercela fare a portare avanti tutto questo da sola. È un amico con cui mi confronto molto, già da prima della nostra collaborazione perché comunque lo apprezzo molto come produttore.
L’etichetta che ha stampato il disco, la “Factory Flaws”, è nata da poco. Come mai questa scelta? Come ti sei trovata?
Loro mi sono piaciuti subito perché avevano un’idea sull’estero molto vicina alla mia. Abbiamo un background musicale molto simile, ma soprattutto la stessa idea su quello che può essere un futuro di un certo tipo di musica, quindi ho preferito fare una cosa con loro.
Sento in te questa spinta verso l’estero, una forte voglia di uscire dai confini del nostro territorio per rivolgerti ad un pubblico internazionale. Qualche passo in questo senso lo hai già fatto, hai suonato parecchie volte fuori dall’Italia con HHTG, ma anche con His Clancyness.
Forse è stato proprio questo ad accendere in te questo desiderio?
Beh, sì. Io vivo la musica come un mezzo per viaggiare, per scoprire cose nuove. Non ce la farei a pensare di farla solo in Italia. Non perché non ami il mio paese, ma semplicemente perché, secondo me, ci sono tante cose belle da vedere in giro. Poi, con gli ascolti che ho, mi interessa provare a confrontarmi con chi queste cose le fa “veramente”, per avere un metro di misura che mi aiuti a comprendere meglio il mio valore. Comunque sì, ho già suonato all’estero e lo rifarò a breve: mi esibirò sul palco dell’Eurosonic in Olanda e al SXSW negli Stati Uniti. Per adesso ho sempre avuto dei buoni feedback, ma non è mai facile per gli italiani riuscire a suonare fuori dal proprio paese, anche solo banalmente per questioni logistiche.
Per quanto riguarda la tua strumentazione, invece, ho notato che utilizzi spesso una Gibson SG. Hai un legame particolare con quella chitarra o si tratta solamente di una questione di suono?
Di quella chitarra mi sono innamorata tanti anni fa e ho convinto il mio insegnante a vendermela. Lui non è un super amante Gibson, ma quella era una delle sue preferite. Sono riuscito a convincerlo a separarsene e ci sono molto affezionata perché è stato un po’ come un passaggio di testimone, lui è anche un mio caro amico. La chitarra è del ’71, suona molto bene e ci sono davvero legata. Non uso sempre quella, ma per mantenere un certo tipo di sound, di solito, utilizzo Gibson.
Quando hai iniziato a suonare la chitarra? Com’è che ti sei avvicinata allo strumento?
Ho iniziato a suonare a 12 anni, quindi parecchio tempo fa [ride]. I miei non erano musicisti, ma penso gli piacesse l’idea di farmi fare qualcos’altro oltre allo sport e per questo li ringrazio molto. Così, quando avevo 5 anni, mi hanno messo davanti ad un pianoforte. Purtroppo, però, non mi trovai molto bene con l’insegnante. Magari, sai, a 5 anni si è anche molto piccoli. E così ho mollato, ma sentivo che mi mancava suonare. Più tardi mi sono avvicinata alla chitarra, anche un po’ per caso, e sono riuscita a trovare un insegnante fantastico. Da lì è stato tutto un susseguirsi naturale di eventi.
Sul palco, dunque, sei da sola con la tua strumentazione. Come ti trovi? Com’è andare in tour da sola?
Non me l’aspettavo, ma stare da sola sul palco mi piace proprio. È strano, perché a volte mi ricordo anche poco di quello che succede. Mi diverto un sacco. È un momento in cui vedo bianco, in senso positivo, ovviamente. Per quanto riguarda il tour, ci sono dei lati più pesanti, ma in realtà non vado mai in giro da sola. Lo ammetto, non ce la farei, ma per fortuna ci sono delle persone stupende che mi accompagnano sempre e portano cose pesanti [ride]. No, diventerebbe impegnativo sia dal punto di vista fisico che psicologico. Quando vai in giro conosci sempre tanta gente, ma è bello avere al tuo fianco persone a te care con cui condividere quest’esperienza. Sono fortunata.
Dov’è che ti è piaciuto di più suonare? Dove risuoneresti? E, soprattutto, dov’è che hai trovato un pubblico più ricettivo?
Una situazione incredibile si è creata a Vienna. Ho suonato in questo festival che si chiama Europavox Project. È un circuito a livello Europeo che propone band che provengono da tutta l’Europa. Io ho condiviso il palco con una band polacca e una tedesca. È stato molto bello perché abbiamo suonato in un locale da 600 persone ed era pieno. Pieno per band che non sono poi così famose. I promoter sono stati bravi a chiamare un gruppo che sapevano avrebbe portato gente e ad affiancarlo con altre band poco conosciute. La risposta del pubblico è stata incredibile. È stato veramente bello. Fai 8 ore di strada, ma vieni ripagata con un locale pieno e gente super carica sotto al palco. Per quanto riguarda i posti in cui vorrei suonare, mi piacerebbe molto prender parte al Great Escape a Brighton. In realtà ce ne sono molti altri, ma sono sogni nel cassetto che conservo per il futuro.
Per i live pensi di continuare con questo set-up minimale o di ampliarlo in qualche modo, magari inserendo qualche turnista?
Per adesso, sicuramente, continuerò ad essere da sola sul palco. L’idea di avere una band o di farmi affiancare da turnisti è molto lontana. Però amplierò di sicuro la mia gamma sonora. Per adesso non ti dico altro, mantengo un alone di mistero [ride].
L’artista a cui ti ispiri maggiormente? La tua figura di riferimento?
In realtà ce ne sono vari. Ci sono tanti artisti che mi piacciono. Seguo da sempre PJ Harvey, che nel tempo ha avuto una grande evoluzione. Mi piace da morire anche Grimes, ad esempio, che però è tutto il contrario. Se PJ Harvey è nera, Grimes è super colorata. Ci sono diversi artisti che mi influenzano, non riesco a sceglierne uno solo.
Visto che il 2016 è giunto al termine, dammi i tuoi dischi dell’anno. Uno italiano e uno straniero.
Allora, per quanto riguarda la musica italiana non saprei pronunciarmi perché non ho ascoltato molto quest’anno. Non sono riuscita ad ascoltare un album dall’inizio alla fine e non me la sento di pronunciarmi. Valicando i confini, ho apprezzato molto il disco di Bon Iver e quello di Rihanna.
Progetti per il futuro? Hai intenzione di pubblicare un album con Giungla? Gli HHTG rimarranno un progetto parallelo o ti dedicherai solamente all’attività da solista?
Con gli Heike, almeno nel nostro cuore, non ci siamo mai sciolti. Abbiamo preso strade diverse, ognuno ha imboccato la propria via, ma non c’è un’idea di rimetterci a suonare, almeno non al momento. L’unica cosa a cui mi voglio dedicare adesso, è questa. Ho nuovi pezzi, sto già lavorando a cose nuove, ma non ho fretta di uscire con un album. Vorrei approfittare delle prossime esperienze all’estero per capire che passi abbia senso fare, ma sono già a lavoro su cose nuove. Prima o poi uscirà sicuramente qualcosa e ti rivelo che a breve pubblicherò un video.
Ultimo concerto che hai visto?
Settimana scorsa, a Bologna, ho visto una band francese che si chiama Rendez-Vous. Fanno new-wave /elettronica ed è stato davvero molto figo.
Un concerto che vorresti vedere?
Spero di andare a vedere Bonzai, che è quest’artista di Dublino trapiantata a Londra che suonerà all’Eurosonic. Laggiù spero di vedere un sacco di cose, tra cui Chinah e Anna of The North. Mi piace vedere band che non arrivano ancora in Italia, se ho la possibilità.
C’è un artista con cui ti piacerebbe collaborare?
Mah, io mi sento ancora un po’ all’inizio. Credo di dover trovare ancora la mia strada. Però, sicuramente, mi piacerebbe avere un remix dai Blue Hawaii, che sono una band canadese. Poi c’è un ragazzo di Milano, che si chiama Kharfi, che fa IDM ed è molto bravo. Mi piacerebbe davvero poter fare qualcosa con lui, in qualsiasi maniera, anche al di fuori di Giungla.
Abbiamo salutato Emanuela rivolgendole un ultimo quesito “alla Marzullo”: fatti una domanda e datti una risposta. Ha detto che ci avrebbe pensato e che ne avremmo riparlato dopo il live. Una volta finito il concerto non ho voluto chiederle nient’altro. Penso che avesse già detto tutto con la sua musica.
A cura di Alessandro Franchi
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.