Erano in trasferta a Roma, i Canova, quando li abbiamo incontrati. Avevano gli occhiali scuri e la nottata addosso.
Matteo Mobrici, Fabio Brando, Federico Laidlaw e Gabriele Prina sono prima di tutto amici, diversissimi tra di loro (e questo è un bene), e poi musicisti che hanno imparato a diventare una band e che stanno crescendo insieme. È appena uscito il loro disco di esordio, “Avete ragione tutti”, lavoro che surfa sull’onda della rinvigorita musica italiana indipendente.
Come sono nati e come si sono conosciuti i Canova?
Noi ci conosciamo da sempre, tramite amici comuni. Anche la band è nata in modo naturale, con l’idea di fare canzoni nostre. Sempre canzoni inedite, nostre, mai cover. Quando abbiamo iniziato a suonare per davvero, dalla fine degli studi superiori, abbiamo iniziato a vivere: è stato spontaneo, non una decisione ponderata. Siamo musicisti autodidatti, ma lavoriamo molto e in base a quello che serve per la canzone, ognuno cerca di diventare multitasking per farla funzionare. E comunque anche De Gregori, per dire, non ha mai studiato. E quando registrava, suonava lui anche se gli proponevano tanti chitarristi migliori: anche nell’errore c’è la forma d’arte. Noi non siamo perfetti, quando suoniamo: ma anche lì c’è una parte di noi.
Adesso abbiamo trovato questa quadratura, eravamo molto convinti sui brani, e quindi abbiamo deciso di fare il disco, il nostro primo. Siamo nati con questo disco nella pratica, anche se in verità suoniamo già da quattro anni in giro, abbiamo fatto un sacco di concerti.
E come avete scelto il nome?
Cercavamo un nome italiano, e questo era breve, era forte, era un nome che già girava nell’orecchio. Non abbiamo pensato a cose tipo la ricerca su Google eccetera. Infatti se ci cerchi siamo gli ultimi della lista! Ma è un nome che suona bene, che si legge così anche in altre lingue. Poi c’è il riferimento ad Antonio Canova: a Milano è pieno di mostre, è pieno di vie intitolate a lui. In quel periodo poi a Palazzo Reale c’è stata un’esibizione temporanea di Canova, e lì c’è stato il colpo di fulmine: appena l’abbiamo detto, abbiamo capito che era lui.
A chi vi ispirate?
Gli ascolti privati sono variegati ma anche simili. Siamo dell’idea di lasciare queste influenze a casa, perché non è che se ti piacciono i Baustelle devi suonare come i Baustelle. Alla fine l’obiettivo è avere una nostra identità, che maturi con il tempo, sempre partendo dalle nostre canzoni e lavorandoci sopra per quel che si può, perché se una canzone è scritta in un modo non è che si può snaturarla più di tanto, i binari sono quelli. Ascoltiamo tanto la musica inglese, anche italiana specialmente quella passata. In generale ci innamoriamo delle canzoni, siamo dei canzonettari. Infatti Italia e Inghilterra hanno in comune proprio questo, la forma canzone. Basta pensare agli Oasis.
Come definireste il vostro stile?
Abbiamo letto una cosa in questi giorni riferita a queste nuove uscite musicali, soprattutto di altri. E c’era questa etichetta che hanno dato (che poi le etichette sono sempre un po’ limitanti): nuovo pop. In realtà secondo noi non è propriamente nuovo come concetto. Sono prettamente canzoni prestate a una sonorità da band, quindi definirlo in due parole “all’inglese” non è facile, ma indubbiamente sono canzoni pop. Non è certo Laura Pausini, ma è forma canzone. Nel pop puoi fare diverse distinzioni.
Come nascono le vostre canzoni, a livello sia di testi che di musica?
Le canzoni le scrive Matteo (Mobrici, il cantante ndr) poi una volta che c’è una quadra definita si passa al giudizio universale della banda, dove ognuno arricchisce con le proprie idee. E poi c’è il lavoro di band. Però la parte di creazione non nasce da una jam session, sono canzoni nate prima, fuori dallo studio, e poi suonate.
L’album si chiama “Avete ragione tutti”, che è un po’ come dire che non ha ragione nessuno. Come mai questo titolo?
Noi suoniamo insieme da tanto, e in questi anni ci si è avvicinato chiunque dando consigli e dritte: “Vieni con me che facciamo così”, “No ragazzi così non va bene”, “Troppo indie” … Quindi questo disco è stata una sorta di liberazione per noi. La covavamo da tanto, l’idea di fare un lavoro così, libero e nostro: sono 9 pezzi e ognuno per noi è fondamentale. Abbiamo voluto dire “Questi siamo noi, decidete voi cosa farne”. Qualsiasi cosa arriverà, noi saremo comunque convinti della nostra forza, andremo per la nostra strada, speriamo di non essere toccati e cambiati dagli altri.
C’è una canzone che ritenete particolarmente simbolica?
Sicuramente la numero uno, Vita sociale. Per noi è stata importante perché quando è arrivata, a dicembre dell’anno scorso, abbiamo deciso di fare il disco. Era il tassello mancante di tutto il resto del mosaico. È anche una sorta di nostro manifesto perché parla di quella depressione da domenica mattina, o da quando torni a casa la sera, un po’ malinconica, triste, che ci appartiene. Dice “Ho voglia di morire”, e questa cosa ci rappresenta molto. Chi non lo dice ogni tanto? Per chi poi fa un mestiere come il nostro, indipendente, il “Vorrei morire” è all’ordine del giorno! Che poi è uno sfogo, non è vero, chi lo dice poi di solito non lo fa.
Invece Brexit o La felicità sembrano più una sorta di inni generazionali, che si fanno portavoce di pensieri condivisi dalla nostra generazione. È così?
Secondo noi per scrivere delle canzoni bisogna essere in contatto con quello che succede. Noi abbiamo tanti amici che non fanno musica nella vita, e sentiamo un’insoddisfazione generale in qualsiasi campo. Ormai (senza fare troppo i generalisti perché dipende anche dalle zone) non c’è niente per la nostra generazione. Tra le persone che frequentiamo noi c’è questo senso di disfatta, ancor prima di averci provato magari. Si sente nell’aria: pensare che a Londra ormai ci sono più italiani che inglesi è un gran segnale. Quindi quando vai a scrivere una canzone, al posto di parlare al singolare in prima persona ti dici “Cazzo magari non sono solo io, forse siamo noi”. Che magari all’inizio noi siamo io e lui, ma poi può diventare un noi più diffuso.
Quanto c’è di autobiografico nei testi?
Tutto. Anche le relazioni con le donne sono tutte reali: ad esempio Expo, è tutto vissuto veramente.
A proposito di questa canzone, come mai avete scelto titoli come Expo o Brexit?
Perché mentre scrivevamo quelle canzoni, era il momento di Expo o di Brexit. Expo ad esempio ha avuto un grande impatto sulla nostra vita, ha cambiato molto Milano, secondo noi in meglio. Quindi quando si è trattato di dare un titolo, di dare un’etichetta al brano, in quel momento Milano era quello, Milano era Expo. E così l’abbiamo titolata. Quindi tra 10 anni quando la riascolteremo ci ricorderemo di quel periodo. E in Brexit c’è dietro la stessa idea.
C’è qualcosa che vi rimproverate di non avere inserito nel disco, o che avreste potuto fare diversamente? E qualcosa di cui invece andate molto fieri?
Rimproverare no. Siamo stati molto liberi in questo lavoro, e quando sei consapevole ti prendi tutti i rischi del caso, quindi siamo contenti di quello che abbiamo prodotto. Andiamo molto fieri del fatto di aver fatto da soli, seppur con la supervisione di professionisti Come Matteo Cantaluppi e Giacomo Garufi della nostra etichetta, la Maciste Dischi. Nessuno ci ha scelto i brani, abbiamo scelto noi tutte le canzoni da mettere. Una volta scelte poi ci siamo confrontati con i produttori, ma è stato molto naturale, naturalmente ci siamo trovati d’accordo. E comunque, il contratto con la Maciste Dischi è nato dopo il disco, noi volevamo farlo indipendenti. Volevamo rappresentare i nostri gusti, non quelli di qualcun altro.
Cosa ne pensate del panorama musicale contemporaneo a livello italiano?
Sicuramente negli ultimi 2 o 3 anni è cambiato tutto. Per noi è una cosa buona, finalmente è arrivata questa rivoluzione, anche se non sappiamo se siamo dentro questo rinnovamento. E non abbiamo ancora capito se è dato dalla proposta, dalle canzoni che vengono scritte, o dal pubblico che è più pronto ad assorbire. Comunque canzoni belle italiane esistevano già prima, però adesso c’è stata una sincronizzazione con il pubblico, qualcuno ha aperto delle porte. E per noi è solo un bene. Siamo curiosi di vedere cosa succederà.
C’è qualche vostro collega che particolarmente stimate e trovate affine?
Molti di quelli usciti quest’anno sono pazzeschi: Calcutta, Motta, Thegiornalisti, Ex-Otago. Secondo noi hanno fatto dei bei lavori a livello qualitativo. A parte il gusto personale, perché c’è quello che ti piace di più e quello di meno, oggettivamente hanno fatto un lavoro incredibile e sono arrivati effettivamente alle persone. Poi stiamo aspettando ansiosi Brunori Sas.
A cura di Giulia Zanichelli

Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.