Cosa hanno in comune Inarritu e Tarantino? Apparentemente niente, se non la costruzione di due film con un’ambientazione sovrapponibile ma con stile e finalità differenti, che si sono concretizzate in due esperienze cinematografiche trasformate in eventi. Per il regista messicano più nella pretenziosità e nelle intenzioni, per l’americano nei fatti, perché, se il primo si proponeva la creazione di un film epocale, quasi un’esperienza religiosa, il secondo ha trasformato il cinema in un luogo di culto. “Hateful Eight” è un film di un ragazzo innamorato del cinema, rimasto fedele alle sue radici, che, ormai cresciuto, ha unito le proprie emozioni al pesante e prezioso bagaglio di un’ormai ventennale carriera e a uno stile affinato e personalissimo. Il formato in Ultra Panavision 70 mm emoziona (vera commozione quella scritta all’inizio del film) e oppone prepotentemente una visione classica di cinema (con questa tecnica furono girati film come “Ben Hur” e sono state create da Dan Sasaki nuove lenti che ricalcassero quelle usate in passato), perfettamente hitchcockiano (che fotografia quella di Robert Richardson, vasta e intima allo stesso tempo! Altro che “The Revenant” con quelle originalissime inquadrature copiate a Taskovsky!), dove Agata Christie assiste ai più splatter schizzi di sangue ed esplosioni di teste dai tempi di Machete. Tarantino ha dichiarato di essersi ispirato a western di serie B e a Poirot, ma più che questi riferimenti sono evidenti quelli alla sua produzione personale.  Samuel L. Jackson discende direttamente da Pulp Fiction, reincarnandosi in Django. Tim Roth è il gemello del Dr. Shultz, ma è anche una iena, che inventa storie intricate e identità fasulle come i protagonisti di “Inglorious Basterds”.

“Hateful Eight” è Tarantino al quadrato, anzi, all’’ottava. Ottavo film e otto personaggi, tra cui ovviamente una donna guerriera, trascinati in Cluedo, dove una tana (una baracca, una carrozza), è il palcoscenico per un western dove tutti sono brutti sporchi e cattivi, come lo erano quei personaggi e mai eroi dei film del Maestro, quel Sergio Leone che ha creato l’epopea del Western snaturato in Spagna, con un Biondo antieroe e il suo brutto compagno. Tarantino riporta il Western a casa e lo reinventa. “Hateful Eight” è ricco di tradizione, un omaggio a Leone, nella struttura a capitoli, nel formato (lui, che torna alla pellicola, bella come non mai, in un’epoca dove il digitale ha appiattito i colori e i contorni del cinema) e ai suoi miti più moderni, come l’idolatrato Corbucci (qui citato ne “il Grande Silenzio”), offuscati dalla memoria della bellezza (ancora, che fotografia!) vincolata a  una brutale violenza come ho visto solo ne “I cancelli del Cielo” (tante le suggestioni, prime tra tutte Oswaldo Mobray, pressoché identico al Kristofferson di Cimino e la potenza nel fumo e della polvere segnata dalla luce, che ammorbidisce i profili e incornicia un mondo brutale) e ne “I quattro dell’apocalisse” di Fulci. Potremmo parlare di tanto altro, ma chiuderò con Kurt Russell, che sembra uscito da Death Proof ed è entrato nelle leggende di Hollywood distruggendo una Martin di fine 1800 (!) girando una delle scene migliori del film. L’attore rappresenta anche un impensabile legame tra “Hateful Eight” e “La cosa”, laddove nel 1982, l’anno in cui uscì “E.T.”, era azzardato puntare sull’horror di Carpenter, così nel 2016 sembra assurdo che uno dei più grandi registi in circolazione possa girare in pellicola, e dove in entrambi i film compare la colonna sonora di Morricone (forse la componente più sottotono del film, sebbene la più premiata), ovviamente scelta anche per l’omaggio a Leone.

“Hateful Eight” sta ricevendo tante critiche negative, impietose e incomprensibili, forse perché si intravede un Tarantino più maturo, che in parte delude le attese ma crea nuovi orizzonti. La si pensi come si voglia, ma è un film da vedere, preferibilmente in 70 mm, per sognare e vivere il cinema come ciò che dovrebbe davvero essere; una sospensione dalla realtà di qualche ora, non sulla poltrona di casa propria, ma davanti a un grande schermo, in cui perdersi, in un’esperienza onirica se non ipnotica. Se si è fortunati indimenticabile.

Il Demente Colombo