Sono vecchio. Polemico, spocchioso, con il broncio facile. Snobbo le nuove leve di appassionati, amo solo i primi dischi di qualunque gruppo in circolazione. Sono fatto così. Il pregiudizio mi divora, lotto contro la pigrizia, non accetto consigli. Che ne sapete, voi giovani, di “39/Smooth” e di “Kerplunk”, i primi due album dei Green Day? Dove eravate quando la Lookout! Records sfornava i lavori delle migliori band punk-rock della West Coast? Operation Ivy, The Queers, Screeching Weasel, The Mr.T Experience. Tra questi primi giovani eredi dei Ramones c’erano anche Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Al Sobrante, poi sostituito da Tré Cool. Erano altri tempi. Difficile trovare i loro dischi nei negozi. Per averli dovevi ordinarli per corrispondenza via fax. Bisognava essere precisissimi. Nome dell’autore, titolo, codice per la spedizione. Non potevi sgarrare. Un giorno ordinai “No Lunch” dei D Generation. Mi arrivò “D Generation” dei Loud. E poi erano sempre mezzi rotti, la custodia ammaccata, il booklet piegato. Che nervi, guarda.

Sono vecchio, provate a comprendermi. L’annuncio di un nuovo disco dei Green Day nel 2020, dopo tutto quello che è successo, mi ha lasciato piuttosto indifferente. Non li seguo più da quattordici, forse quindici anni, e sono pure convinto di averli mollati fin troppo tardi. Ogni tanto li metto su ancora. Non vado mai oltre “Insomniac”, anno di grazia 1995. A posteriori, è forse il loro album migliore. Ma se l’amore è amore, mezzo ascolto lo dedichi sempre anche alle nuove uscite. E allora facciamo girare questo “Father of All Motherfuckers”, uscito il 7 febbraio 2020 per Reprise. È il loro tredicesimo lavoro. Dura soltanto 26 minuti. Tanto vale buttarlo giù tutto in un sorso, come uno shottino di Caffè Borghetti durante un ottavo di finale di Coppa Italia. Datemi una mezz’oretta, arrivo subito.

 

 

Ok, finito. Adesso posso confessarlo. Prima ancora di ascoltarlo, mi ero messo in testa di fingermi un anzianotto malmostoso e vomitare astio su un disco che pensavo non avesse senso di esistere. E così ho fatto. Per questo ho iniziato a scrivere tutte quelle cattiverie gratuite. «Snobbo le nuove leve», «Non accetto consigli», «Sono fatto così». Beh, non è vero niente. Non sono fatto così. Me ne pento amaramente, perdonatemi. Erano un mucchio di fandonie. Cioè: che sono vecchio è vero. Ormai vado per i quaranta e i Green Day erano tra i miei idoli quando ne avevo quattordici. Ma di questo disco non si può proprio parlare male. Neanche se per scherzare un po’ ti imponi di fare il vecchio rompiballe che non ascolta i dischi usciti dopo il 1999.

Parliamoci chiaro. Nella storia del rock, e pure in quella più contenuta del punk, “Father of All Motherfuckers” inciderà più o meno quanto ha inciso Anthony Vanden Borre nel campionato italiano. Nulla. Lui, il giocatore più forte al mondo senza il pallone al piede, fu rispedito presto al mittente con un bel grazie e arrivederci a mai più. Lo stesso si potrebbe dire di questo album, che difficilmente tornerò ad ascoltare. Il fatto, però, è che in queste dieci nuove tracce il gruppo originario di Berkeley, California, ha suonato a ruota libera, svincolato da qualsivoglia costrizione. Insomma, i Green Day si sono permessi di fare ciò che in questo esatto momento storico li soddisfa di più. «Si sono sciallati», come dicono non so dove. E questo è sicuramente un pregio. O meglio, una scelta da rispettare, che non merita alcuna spiritosaggine.

Ecco quindi che al loro classico pop-punk, i tre vecchi beniamini iniziano a mescolare garage, rock’n’roll e power pop. Nulla di originale, tutto già sentito, ma terribilmente orecchiabile, almeno per chi ama ancora le chitarre. Mezz’oretta, dicevamo, e passa la paura. Il tempo di una doccia un po’ più lunga del solito, una corsetta al parco, un viaggio in metropolitana da Loreto a Famagosta. Una roba semplice, insomma, per quando non hai nulla a cui pensare. Basta superare lo shock di sentire Billie Joe cantare in falsetto e poi la strada è tutta in discesa, giuro. Quello del falsetto, tra l’altro, è uno scherzo che aveva già fatto nel 2008 con i Foxboro Hot Tubs, un side-project dei Green Day camuffato da misteriosa band garage.

Proprio a quella esperienza sembra ispirarsi questo nuovo lavoro, comunque molto distante rispetto alle sonorità degli esordi. Il disco parte in quinta con la title-track, vagamente ispirata a Fire di Jimi Hendrix, ma nella cover che i Red Hot Chili Peppers registrarono nel 1989 per “Mother’s Milk”. Nella successiva Fire, Ready, Aim sembra di sentire gli Hives di Hate To Say I Told You So, mentre Oh Yeah! è un esplicito tributo a Joan Jett e Gary Glitter. Vabbè, i riferimenti si sprecano, lo avrete capito. Sbizzarritevi voi a scovare le assonanze di Stab You in the Heart, io non c’ho più voglia. Si potrebbe invece dire qualcosa sulle ammissioni di Billie Joe Armstrong in I Was a Teenage Teenager, che sembra chiudere il cerchio aperto secoli fa con Longview (1994) e ripassato più tardi con Blood, Sex and Booze (2000). Un ulteriore attestato di consapevolezza e genuinità.

Sì, sono vecchio, ma non sono polemico. Credetemi. Volevo distruggere il disco con la maschera del nemico, ma non ce l’ho fatta. Perché qui non c’è nulla da distruggere, poveri Green Day. Ci hanno salvato da un’adolescenza a rischio. Ci hanno spinto a imbracciare le prime chitarre, a mandare a cagare tutti, a uscire di casa per divertirci. E adesso che a divertirsi sono loro, che facciamo? Li schifiamo? No, non è il caso. “Father Of All Motherfuckers” è un disco onesto, oserei dire salutare. La doccia diventa un piacere, la corsa una passeggiata, la metropolitana un bel treno colorato. Di più, ormai, non glielo si può chiedere.

Paolo

 

I Green Day suoneranno in Italia a giugno con Fall Out Boy e Weezer. Qui per i biglietti.
Qui sotto, invece, il video di Meet Me on the Roof, con la partecipazione di Dustin di Stranger Things: