Toska è una parola in lingua russa che non trova un’esatta traduzione che renda giustizia al suo significato originario. È un’angoscia spirituale senza una causa specifica, è inquietudine, è un opprimente male dell’anima, è nostalgia di qualcosa, senza sapere bene di cosa. I Gomma sono Ilaria, Giovanni, Paolo e Matteo, una band giovanissima della provincia di Caserta, di quei luoghi da cui i ragazzi tendono sempre a scappare. Eppure sono i luoghi che li fanno incontrare.

Toska” è il titolo del loro album d’esordio, è il racconto dell’angoscia post-adolescenziale che viene urlata a squarciagola dalla prima all’ultima traccia, un fiume di sensazioni che travolge l’anima e la rende irrequieta, la stanca ancor prima di scoprire il vero male del mondo. Atteggiamento emo-punk, amore e odio nei confronti della vita, rassegnazione nei confronti del dolore e della morte, non maledizione ma destino. In copertina, il loro nome scritto con una font punk e una distesa di tulipani. Sullo sfondo montagne innevate, in primo piano il corpo di una ragazzina in bianco e nero con il viso/non viso e le fauci spalancate di un animale feroce. Quiete e ferocia che convivono in un’unica rappresentazione, proprio come nella vita reale.

L’album è composto di nove tracce, brevi e immediate, si apre e si chiude con la storia di Alice, protagonista di un prologo (Alice scopre) e di un epilogo (Alice capisce), protagonista di una scoperta e di una successiva consapevolezza e presa di coscienza. Il brano Aprile, che fece da singolo di lancio prima dell’uscita dell’album, è una preghiera stanca, una richiesta d’amore che sa già la risposta, un’implorazione che non verrà ascoltata. Il suono dei Gomma è vecchia scuola, basso, chitarra e batteria, con la voce isterica, a tratti straziante, di Ilaria. I Gomma, come i loro coetanei, sono spaventati dai nuovi inizi, a tal punto da rinunciare alle cose spesso in partenza, “I nuovi inizi mi si stringono addosso come i lacci delle scarpe, li allontano ma ritornano sempre, le scarpe nuove non le metto più, ma il rumore lo sento ancora”, scrivono in Le scarpe di Beethoven.

C’è del gotico e del post-punk nel loro suono, del rock sperimentale e una buona dose di tetra teatralità, un richiamo alla letteratura russa, al cinema francese anni cinquanta e alla presa di coscienza e alla voglia di affermazione da parte delle giovani generazioni, come in Elefanti. In nessun brano c’è un affannoso uso di terminologia ricercata, i testi sono semplici e diretti, non sono manipolati né distorti solo per piacere a qualcuno, sono schiaffi in faccia, sono come devono essere, sono la verità sputata fuori come viene, ed è fantastico così.

Marilena Carbone

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