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Ellis Cloud – Born in the 20’s: Recensione

Palermitano di nascita, Ellis Cloud (all’anagrafe Riccardo Lo Faso) presenta un disco d’esordio sospeso tra reggae, ska e canzone d’autore (ma non solo), musicalmente concepito tra Brooklyn e Manhattan. “Born in the 20’s” richiama l’attenzione sull’avvenire che è alle porte. Ambientato nel futuro della classe ’20 (ma del 2000), più precisamente siamo nel 2040, quando di bizarre resta ben poco, in un quotidiano fatto di tecnologia sempre più avanzata e onnipresente che ha portato a ribaltare ciò che è l’uomo e ciò che rimane dei rapporti umani. Nel futuro secondo Lo Faso/Ellis Cloud, però, la musica mantiene il sapore vintage di uno spettacolo che ritorna in chiave groove-r’n’b.

Un album a dir poco virtuoso, con testi interamente cantati in lingua inglese, nel quale intervengono musicisti come Federico Quartana, Ciro Pusateri, Dario Grizzaffi, Lorenzo Passalacqua e Giorgio Bovì e nel quale lo stesso Ellis Cloud, oltre che a vestire i panni di co-produttore, imbraccia la chitarra e il basso, si sposta sui sintetizzatori, dando piena espressione del suo suono così variegato: Street Star è il connubio capace di legare elettronica, rock’n’roll, pop e soul, New Flying Socks incalza con il funk. Non sono un taboo le ritmiche più spassionatamente disco (Walk On Water), che a loro volta convivono con ciò che è più caro al reggae (Leave Me Alone, l’esempio più calzante), in leggero contrasto con gli aspetti del tempo che si propone di raccontare, non smettendo comunque di divertirsi e far divertire (Tangled Wires).

In So Young, di cui non si può non citare l’assolo di chitarra, viene affrontato di petto il tema dell’eterna giovinezza. Con Moody Movie, infine, la strada è spianata per la title-track, il trionfo di case su Marte e robot. Questo suono kitsch smaliziato è capace di continuare ad essere coinvolgente anche quando rivela una malinconia di sottofondo, che permea e si insinua anche quando il ritmo si fa più elettrico. Dieci canzoni bastano per svelare ciò che ci riserva il 2040. Si meritano una menzione speciale la tecnica e gli arrangiamenti, tutti, che nel complesso fanno benissimo al disco ed esaltano i pezzi che non faticano a scorrere in un album d’esordio azzeccato senza la pretesa di imporsi.

Caterina Gritti