Siamo stati a Lussemburgo City per assistere al Siren’s Call Festival, un’unica grande giornata che ha visto alternarsi qualche nuova promessa a un paio di classici moderni. Ci siamo portati a casa tanti bei ricordi, molti sorrisi e un viaggetto in un luogo spesso dimenticato. Qui sotto proviamo a raccontarvi tutto quello che abbiamo visto e ascoltato.
A cura di Paolo Ferrari
Lussemburgo è una città facile. Quando arrivi all’aeroporto sembra di stare in un campo volo per modellini radiocomandati. Tutto intorno ci sono solo rotonde e prati verdi. Come in Svizzera: l’ordine e il rigore prima di ogni cosa. L’autobus numero 29 ti porta in centro in pochi minuti. Per arrivarci si passa per il quartiere moderno. Non mi ricordo il nome, ma è qualcosa tipo Kierkegaard. Di filosofico, però, c’è ben poco. Nulla di più lontano dall’esistenzialismo. Ci sono solo giovani burocrati, giardini disinfettati e un ammasso di palazzoni che chiamano Europa.
Poi c’è la città antica, chiusa in quel che resta delle vecchie mura. È tutto un saliscendi di scale, piccoli ponti e un enorme cavalcavia che si eleva a picco su un grosso parco. Chissà se qualcuno si è mai buttato da qui, mi chiedo affacciandomi alla ringhiera. Non ne sono certo, ma credo in pochi. Perché in fondo da queste parti la gente sembra vivere felice. In piazza suona un’orchestrina in divisa, nei locali ci si dà appuntamento per un beverone biologico. E poi c’è questa devozione assurda per la monarchia. Anzi, per il ducato. Nelle vetrine dei negozi, quasi tutte, sono esposte le immagini di un signore in uniforme. Ha un sorriso da ebete, ma lo adorano tutti, non so perché. Poi ho controllato: si chiama Enrico I, Granduca di Lussemburgo, discendente diretto di Luigi XIV. Mica cazzi. A me ricorda il David Bowie di “Heaten”.
Ma veniamo alla musica, appunto. Di fronte all’antico ospedale militare di Lussemburgo è stato allestito il palco principale del Siren’s Call Festival. In Italia non lo conosce nessuno, ma è uno dei mini-festival europei più frizzanti dell’estate. Dico frizzanti soprattutto perché mi piace la parola. Ma non c’è dubbio che non appena si varca l’ingresso, si venga investiti da una piacevole sensazione di freschezza e genuinità. La verità, però, è che a spingerci fin qui, in questa terra di santi e di banchieri, è stata una lineup di massimo rispetto.
Tre sorprese
Dunque, partiamo dalle sorprese. La prima si chiama Dream Wife. Per chi non lo sapesse, si tratta di una giovane band di Brighton composta da tre ragazze assetate di post-punk e un turnista riccioluto alla batteria. Suonano al chiuso, in un club in cima a una strada di cui non ricordo il nome. Scusate. Ci si arriva attraverso un sentiero che costeggia il fiume Alzette (questo lo ricordo), l’angolo più bello dell’intera area del festival. Beh, dicevamo, le Dream Wife mi sono piaciute assai. Ricordano i primi Blondie (non a caso in scaletta hanno una cover di One Way Or Another) e gli 80’s inglesi, sponda new wave. Nulla di nuovo, per carità, ma la loro performance è stata tra le più esaltanti. Ascoltate la loro Somebody e poi andate a ripassarvi Making Plans For Nigel degli XTC. Siamo da quelle parti, vero?
La seconda sorpresa si chiama Parcels. Parliamo questa volta di una band semi-sconosciuta di origini austrialiane, ma di stanza a Berlino. Il loro nome è balzato agli onori delle cronache da quando i Daft Punk hanno deciso di produrre il loro ultimo singolo, Overnight. Il brano suona come una b-side di “Random Access Memories”, ma al di là delle dovute proporzioni, l’effetto è devastante. La chitarra funky del leader Jules Crommelin (è il sosia di George Harrison, giuro) sembra uscita dai favolosi anni ’70. Quelli della disco music, dei balli di gruppo, con qualche incursione nell’indie-rock più moderno. Oltre al singolo già citato, l’altra bombetta dei Parcels è Tieduprightnow. Anche qui, però, vi invito ad ascoltarla in rapida successione con Lose Yourself To Dance degli stessi Daft Punk. Siamo lì.
Ed eccoci alla terza sorpresa. I più fortunati, in realtà, avevano già avuto modo di apprezzarli l’anno scorso a Ypsigrock. Si chiamano Klangstof, vengono dal Nord Europa (Germania, Norvegia) e hanno fatto di Amsterdam la loro base operativa. Il loro è un post-rock moderno, ma viscerale. A metà strada tra i Mogwai e gli Alt-J, con una batteria potente e diverse spruzzate di elettronica. Essenziali nel cantato, emozionanti nelle ampie parentesi strumentali. La mia preferita è Amansworld, che dal vivo esplode in un crescendo da brividi. Se non li conoscete già, provateli.
Tre conferme
No, i Superorganism non sono una sorpresa. Non più. Il loro pop cartoonito sta conquistando migliaia di fan. Grazie a un folgorante disco d’esordio, stanno spopolando in tutti i festival europei. Non c’è dubbio che il prematuro mito della band inglese sia costruito intorno alla figura della cantante di origini giapponesi Orono Noguchi. Il suo aspetto candido e innocente, unito a una statura non certo invidiabile, contribuisce a fare dei Superorganism una band bizzarra. É vero, così minuta e indifesa sembra proprio una bimba. Ma non lo è, giuro che non lo è. Mentre la osservo cantare Something For Your M.I.N.D in mezzo a una folla impazzita, faccio una rapida ricerca su Google. Ebbene, ero convinto che Orono avesse qualcosa come 13 anni. Invece ne ha 19, gli stessi di Alex Turner ai tempi di “Whatever People Say I Am…”. Fatto sta che vederla cantare con una birra da 66 in mano fa quasi impressione. Cosa fai, bambina, i minorenni in Lussemburgo non possono bere! Pazza, ti faranno il verbale! Ma lei ci dà dentro di gusto, è tutto in regola, mentre il resto della band riempie il palco di suoni e colori. Eseguono praticamente l’intero disco, ed è un vero spasso.
La storia, però, ha un suo peso e si fa sentire. Quando gli Eels fanno il loro ingresso sul palco, sono accompagnati dalla colonna sonora di “Rocky”, tipo comparsa sul ring degli antieroi americani. Il concerto, naturalmente, è da k.o. tecnico su qualunque altra band abbia suonato quest’oggi. Mr E, come da copione, fa di tutto per nascondere il suo animo fragile e gentile. Cappello in testa, occhiale scuro, barba incolta. Si finge burbero e scazzato, ma è ciò che impone il suo personaggio. Suona poco la chitarra e predilige il canto. Opta per un set elettrico, potente, senza fronzoli, gettato in pasto al pubblico con la consueta ironia.
L’introduzione è affidata a una cover di Out In The Street degli Who. Una manciata di brani nuovi dal bellissimo “The Deconstruction” (Bone Dry, Today Is The Day, You Are The Shining Light) lascia spazio a un filotto di vecchi classici, da Dog Faced Boy a My Beloved Monster, fino a una versione di Souljacker Part.2 suonata a razzo. L’inno Novocaine For The Soul è sporcato di rock, così come I like Birds, trasformata in un pezzo punk. Tutto perfetto, tutto bellissimo. In platea vedo agitarsi le teste brizzolate dei primi seguaci accanto a quelle bionde dei nuovi adepti. Qui si fa l’indie o si muore.
Gli Mgmt chiudono la serata sul main stage. Freschi di un bellissimo disco, “Little Dark Age”, spero che dal vivo siano all’altezza della loro ultima produzione in studio. Il fatto è che questa sera Andrew VanWyngarden (dio solo sa come ho fatto a memorizzare il suo nome negli anni) non è molto soddisfatto. C’è qualcosa che lo infastidisce. I suoni, forse. Spiega che il grande ospedale militare, che si erge proprio di fronte al palco, crea un’eco che non è il massimo. E allora si dispera, guarda il fonico seccato, allarga le braccia in segno di resa. Se non fosse per questo suo evidente malessere, il live sarebbe perfetto. Perché i pezzi ci sono, da When You Die alla nuova hit Me and Michael. Senza contare i vecchi cavalli di battaglia, come Time to Pretend ed Electric Feel.
C’è anche una scenografia ben studiata, a partire dal pupazzone giallo disegnato da Jin Taber per la cover dell’ultimo album e qui riproposto in versione gonfiabile ai lati del palco. Durante She Works Out Too Much, Andrew canta pedalando su una cyclette. Ma è svogliato, si vede. Quando parte Kids, il pubblico inizia a dimenarsi. Qui gli Mgmt danno il loro meglio. Una lunga suite elettronica tira la volata al ritornello finale.
Il gruppo di Brooklin chiude il set con qualche ballad acidona. A mezzanotte finisce tutto. Gli sballati si trasferiscono al djset, gli affamati da un tizio con i baffi che griglia le salsicce in strada. Per rientrare a casa c’è da fare una scalata sui ciottoli che non promette nulla di buono. Qui la chiamano Le Chemin de la Corniche, che suona molto leggera. Ma la traduzione corretta sarebbe “salita assassina”. Al limite “arrampicata della morte”. Mi faccio forza e la affronto. Sulla strada del ritorno incrocio i Klangstof che si preparano a trasformarsi in deejay dietro la console. Ho ancora in testa Blinking Lights (for me) degli Eels. Questa sera non faccio follie. Lancio un’occhiata e tiro dritto. Domani ho un aereo.
Blinking lights on the airplane wings
Up above the trees
Blinking down a Morse code signal
Especially for me
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.