Armonica sulla bocca, Conor Oberst è tornato. Non si è fatto aspettare tanto, ma è cambiato. O meglio, ha dimostrato di saper evolvere il suo discorso e la sua poetica, di saperla declinare con sonorità più composite ed elaborate. “Salutations” è un album diverso nuovo e originale, ma che assorbe e digerisce “Ruminations”, il disco che l’ha preceduto di soli cinque mesi.
Partendo dal livello melodico-espressivo intimistico e pervasivo delle Ruminazioni del recente passato del cantautore made in Nebraska, in questo lavoro la sua anima si spiega in più suoni e più espansioni. Strumentazione folk dominante in tutte le 17 canzoni, Oberst dimostra di far parte di quella scuola di songwriting americano in grado di lasciare un segno e degna di essere ricordata: un Bob Dylan contemporaneo e ugualmente disincantato.
Il paragone è altisonante, ma Conor merita di essere accostato a questo stile di poesia in musica, di parole pervase di passione e realtà, di potenza verbale che si incastra con agilità in un tappeto sonoro folk rock: chitarre elettriche con fisarmonica, pianoforte con violini, chitarre acustiche con armonica. I testi sono immediati, puri, semplici righe di pensiero infilate nell’ago della sua penna, che ricchi della propria singolarità e semplicità alla fine vanno a comporre un prezioso e malinconico intarsio.
“È troppo tardi per aggiustare tutti i miei errori”, canta nell’open track narrativa “Too Late To Fixate”, dove si canta di puttane e Dalai Lama con una dolcezza e semplicità intermezzata da violini. Sulla stessa linea di squallore quotidiano e amoroso si piazza tra le altre “Gossamer Thin”, e non bastano i dolci tasti di “Next of Kim” o le reveries di “Counting Sheeps” ad attenuare questa pesantezza di animo: “C’è un sacco di nulla da fare”, ribadisce Conor tra le chitarre elettriche di “Napalm”.
Una sobria esaltazione dell’indulgenza umana, di quella tempesta tormentata e incasinata che è la vita. Una disillusa visione di cosa l’umanità è diventata oggi. Senza lanciare giudizi punitivi o critiche moraleggianti, Conor dipinge la realtà che percepisce, senza abbellirla né demonizzarla. Arriva a conoscerla e a farcela conoscere, sprecata e alienante come spesso è, in una lotta alla ricerca di successo e celebrità che poi si vota al nulla e all’indifferenza. E le ultime tre tracce, “You All Loved Him Once”, “Little Uncanny” e “Salutations” ne traggono le fila.
Conor Oberst è uno di quei sarti del cantautorato che ti insegna come non sia necessario fare sfilate di haute couture con le parole e le note, ma quanto spesso basti – o sia addirittura più potente – dedicarsi a un quotidiano, metodico, scientificamente complesso punto a croce dell’anima.
Giulia Zanichelli
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Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.