Dichiariamo subito quello che andrebbe tenuto sotto la più grande cappa di silenzio. Chi redige le parole che, vostro malgrado, scorrono sullo schermo non mastica punk-hardocore da un po’, tanto che alla vigilia dell’ascolto di “Last Building Burning” dei Cloud Nothings un piccolo brivido di paura e di inadeguatezza ha bruscamente interrotto la beatitudine placida del pomeriggio domenicale.

Mal gliene incolse, perché questo disco senza fronzoli, buttato a tutta velocità sul cemento in rovina di una vecchia periferia di Cleveland, ha davvero la stazza di un monumento eretto alla pura classicità.

Non ingannino il lettore questi giochi retorici tesi più al sollazzo che al depistaggio: non ci sono pezzi qui contenuti che non valgano l’ascolto ai posteri, ereditando, loro, almeno un po’ di buono che il rock porta, malgrado tutto, ancora in dote nell’anno del signore 2018.

E, diamine, se c’è ancora uno stigma marchiato a fuoco del punk, perché di questo si tratta, in qualunque modo declinato, questo ha a che fare con la rabbia, con la frustrazione, con il trascinarsi a tutti i costi nella vita, ogni giorno di ordinaria agonia presupponendo l’emancipazione, da sé stessi innanzitutto.

Il merito della band americana, a febbraio bazzicante la penisola, in terra lombrosiana più precisamente, è quello che sembra essere, invece, il grande trauma di oggi: la rabbia abbigliata di sicumera e utilizzata come arma appuntita da infilzare nelle piazze di ogni ordine e grado, vere o virtuali che siano. Lo scheletro melodico che percorre come un canale tutta l’opera si erge a unico e solo antidoto alla violenza a briglie sciolte di torme dall’infinito blaterìo.

Per una On an Edge, rigurgito di sempiterne sconfitte e rivalsa di chi ha l’orgoglio ferito ma non fiaccato, c’è e ci sarà sempre una Offer an End, una So Right So Clean. Capitoli della stessa antologia emozionale, di un ventaglio che scandisce ritmicamente le accensioni d’ira, e che copre tutte le variabili dell’incomunicabilità.

Affiora alla mente un’istantanea dalla performance “La storia infinita di Marina e Ulay”, sicuramente tra le cose migliori dell’Abramovic: due figure, una di fronte all’altra, uomo e donna, intenti a urlarsi come se non ci fosse la minima possibilità, o peggio la volontà, di capirsi, di dialogare.

Una volta, e per tutte, dovremmo ringraziare i Cloud Nothings perché con il loro urlo distorto e lancinante disattendono con spavalda contrarietà l’armamentario degli arrabbiati di professione e ci dicono che indignazione e dignità vanno a braccetto, l’una l’istinto e l’altra la sintesi di ogni possibile cambiamento.

Se ancora vogliamo puntare sull’umanesimo, è necessario non privarsi di un certo tipo di Rock, di cui questa band pare volerne fare parte, tenacemente, al punto da considerare il mondo ancora un posto da redimere.

Alberto Scuderi