“No use in life without sound”, ovvero “la vita senza la musica non ha senso”, sentenzia Dylan Baldi in “Things Are Right With You”. E forse è l’unica cosa che azzecca. Ma facciamo un passo indietro. Cloud Nothings, quarto album, “Life Without Sound”. La band di Cleveland confeziona un nuovo sguaiato disco in odore punk che chiude un cerchio iniziato sei anni fa con il primo album omonimo. Chiude, ma non termina. Proprio come quando si ripassa dal “via” in una partita di Monopoli. Si è compiuto un giro, ma la partita non è finita, e tantomeno vinta. E i Cloud Nothings hanno pescato una carta “imprevisto” e sono ripartiti da capo. Sono tornati al punk, senza prefissi o postfissi. Niente fronzoli, ma solo per quanto riguarda l’intenzione, non di certo la produzione che, di album in album, si è fatta sempre più accurata. Questa volta se ne è occupato John Goodmanson (Death Cab For Cutie, Sleater Keanny) e il risultato è un disco pulito di punk sporco. Il piglio lo-fi che si captava nel primo album non c’è più.

I ragazzi di Cleveland suonano ordinati e dimessi, domati come animali in gabbia. Brani come “Internal World”, “Enter Entirely” o “Modern Act”, sono impacciati e scontati. Falsi, forse. E il risultato è un punk per ragazzini che hanno voglia di scalmanarsi, pane per i denti di giovani skater alle prime armi. Ma per quello esistono già i Blink 182, e il loro compito lo svolgono egregiamente. E non è un caso, allora, se si legge che ad assistere agli ultimi concerti della band di Cleveland la maggior parte del pubblico era composto da adolescenti. “Life Without Sound” cavalca quest’onda, continua sulla scia di quanto di catchy e furbescamente fresco si era fiutato negli ultimi loro sforzi.

E allora non rimane che aggrapparsi a quel poco di buono che ci viene concesso, al lato oscuro del disco, quello “vero”, che si manifesta brevemente in “Darkened Rings”, dove Dylan sfoga in un ruggito vicino al growl tutta la sua rabbia repressa. Non ci resta che confidare nella positiva chiusura, che con il binomio “Strange Year” e “Realize My Fate” vira verso un groviglio di suoni dissonanti e di vocalizzazioni sofferte e piene di angoscia, che ricordano i tempi in cui seduto dietro il mixer stava il buon vecchio Steve Albini. Non ci resta che sperare in un lancio di dadi fortunato, che permetta ai Cloud Nothings di costruire case ed alberghi in caselle strategiche e di tornare a dominare la partita.

Alessandro Franchi

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