brunori sas a casa tutto bene coverBrunori ci ha ingannato, ci ha tagliato le gambe. Brunori il menestrello, il giullare che ha ridefinito il cantautorato italiano, il Rino Gaetano degli anni Dieci. Quel Dario Brunori, che piaccia o no, lo abbiamo perso. Se tutto fosse rimasto come prima, questo quarto lavoro, uscito il 20 gennaio per Picicca Dischi, si sarebbe chiamato “Volume 4”. Ma sulla rotta Lamezia-Milano le cose sono cambiate parecchio. Il pendolarismo virtuale, prima ancora che geografico, ha trascinato l’artista calabrese dal tinello della sua casa di San Fili a un tavolino apparecchiato sui Navigli. Su e giù da un aereo troppo stretto o dietro i finestroni della 91, circolare sinistra. Nasce così “A casa tutto bene”: un disco nuovo, diverso.

Diverso innanzitutto nello sguardo e nella scrittura. Un linguaggio che al primo ascolto si potrebbe definire più maturo, più elegante. Ma non è questo il punto. Ciò che non è mai mancato nei dischi di Brunori è proprio la maturità. Quel suo modo di stare alla larga dal luogo comune facendo dello stereotipo uno strumento di critica, quel vizietto di rubare la pistola al nemico per minacciarlo con la sua stessa arma, lo hanno sempre contraddistinto in saggezza e lungimiranza. A cambiare, qui, non è il grado di maturità, ma il livello di consapevolezza.

Le brutture del mondo non sono più raccontate, ma sbattute in faccia. Emblematico, in questo senso, è La Verità, il brano d’apertura, forse il migliore del disco. Il timore di andare oltre, l’incapacità di affrontare un mostro o di accettarlo per quello che è, sono angosce che viviamo ogni giorno, ma con le quali fatichiamo a confrontarci. Tanto che fin dai primi versi (“Te ne sei accorto sì, che parti per scalare le montagne e poi ti fermi al primo ristorante?”) ci si sente messi all’angolo, smascherati. Ma l’inganno dura poco, perché a Brunori piace giocare a carte scoperte. Le dodici tracce che compongono il disco sono disseminate di alibi e ammissioni. Come a dire: “Attenzione gente, non ho più tempo per scherzare”. È così che la falsa modestia di Canzone contro la paura (“Scrivo canzoni poco intelligenti, che le capisci subito non appena le senti”) si traduce in una presa di distanza dai cari vecchi ritratti popolari. Lo stesso accade in Secondo me (“Se canti il popolo, sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore”), da cui emerge quasi un senso di colpa.

Avvertire, però, non basta a sgomberare la strada dagli ostacoli. Si rischia l’appiattimento, la morale spiccia, il riempipista. È il caso di Colpo di pistola e Diego e io, un pezzo talmente classico da poter andare a Sanremo e vincerlo a mani basse. Ma è questa la svolta che ci aspettavamo da Brunori? Forse no. Meglio i testi politici di Uomo nero, Lamezia-Milano e Sabato Bestiale, con quell’incedere latino e militante tanto caro a Fossati e Silvestri. La musica fa da contraltare al senso di spaesamento generale. La produzione artistica di Taketo Gohara impasta a dovere chitarre anni ’30 e mandole del ‘700 con sintetizzatori, loop e drum machine. Nonostante il buon risultato, tutto appare molto più sobrio e lineare rispetto al passato. Non è sempre un bene, perché a furia di prendere seriamente Brunori, come un De Gregori o un Concato da riporto, la spiaggia di Guardia rovente rischia di svuotarsi.

Paolo Ferrari