Bonetti è un cantautore piemontese, di quelli che si discostano leggermente da ciò che va di moda oggi. Non che la sua musica suoni datata, anzi, ma l’obiettivo non è certo quello di inseguire il trend del momento. C’è tradizione, sentimento e un occhio molto discreto ai colleghi contemporanei.

Il suo album d’esordio, “Camper”, prodotto da Omid Jazi, esce nel 2015 per Costello’s Records. Grazie a questo disco, Bonetti entra subito tra gli artisti italiani da tenere d’occhio. In pochi mesi si ritrova ad aprire i live di Niccolò Fabi, Calcutta, Colapesce, Giovanni Truppi e altri artisti noti. Tre anni dopo, nel 2018, dà alle stampe il suo secondo album, “Dopo la guerra”, questa volta prodotto da Fabio Grande de I Quartieri. Anche in questo caso, la critica è entusiasta.

Eccolo quindi ritornare nel 2020, in pieno lockdown, con i singoli Non ci conosciamo più e il più recente Siamo Vivi, che anticipano il terzo disco in uscita a settembre per Bravo Dischi e Labellascheggia. Ed è proprio dall’ascolto di queste due nuove canzoni che ci siamo lasciati ispirare per la nostra intervista. Buona lettura.

 

Intervista a cura di Paolo

 

Dal tuo primo disco, “Camper”, all’ultimo singolo “Siamo Vivi”, il suono non è mai esattamente lo stesso e sembra perfezionarsi di volta in volta. Quanto e come si è evoluta la tua musica dal 2015 a oggi?

Non so se si tratta proprio di un perfezionamento (anche se ti ringrazio per questa definizione). Io ho sempre inteso lo scrivere canzoni come un qualcosa in continua evoluzione. La mia vita – come quella di tutti – negli anni è cambiata. Io sono cambiato. Continuo a servirmi della canzone come mezzo per fotografare e rielaborare ciò che mi sta intorno, ma inevitabilmente i cambiamenti si riflettono anche nelle scrittura e nella scelta dei suoni.

Nella musica conta davvero stare al passo con i tempi? Ti senti un musicista “alla moda”?

Beh, stare al passo coi tempi è sicuramente importante. Questo non significa per forza cambiare stile e genere ogni anno, però è fondamentale conoscere e approfondire quello che va e che piace. Almeno a livello teorico. Io cerco sempre di informarmi e di assorbire le novità che trovo interessanti. Poi ovvio che tutto viene rivisitato e filtrato dal mio gusto personale e dal mio stile, che sicuramente potrebbero essere più alla moda di così, me ne rendo conto. A un certo punto però intervengono anche la coerenza e la necessità di non mentire a sé stessi, per cui la questione è che lo stare al passo coi tempi non deve mai essere una forzatura, semmai lo stimolo per una ricerca.

Il concetto di tempo, tra l’altro, è spesso al centro dei tuoi testi. In Sandra a Torino, per esempio, cantavi: “Il passato è passato, il futuro è presente e il presente è una mano stretta che ci stringe le vene dei polsi”. Nel primo singolo uscito nel 2020, Non ci conosciamo più, canti invece che “il presente è passato”. Hai cambiato prospettiva?

No, la prospettiva è sempre quella di provare a spiegarmi il tempo in cui mi trovo e di fronte al quale mi sento sempre molto piccolo. Diciamo che in quei due brani descrivo due situazioni diverse e quindi sembra che dica due cose in antitesi. Ma la verità è che io il tempo continuo a spiarlo dal mio angolino, e provare a raccontarlo non ha mai smesso di affascinarmi.

Oltre che al tempo, i tuoi lavori sono costellati anche di parecchi riferimenti ai luoghi. Città, soprattutto, come la tua Torino, Novara, Milano, che hanno iniziato a popolare anche le copertine dei tuoi singoli. Quanto è importante la tua presenza fisica in un luogo nella scrittura delle canzoni?

Molto. Non è una cosa decisa a tavolino, ve lo posso giurare. È che io quando scrivo parto sempre da situazioni reali. E di solito il luogo in cui mi trovo è più di un semplice fondale, diciamo che è praticamente un attore non protagonista di ciò che racconto. Tra l’altro, ora che ci penso, trovo curioso che i miei tre dischi siano stati scritti in tre luoghi diversi: la provincia piemontese, Torino e Milano. Anche questo ci riporta al discorso dei cambiamenti che vanno a riflettersi sui brani.

Ascoltando il nuovo singolo Siamo Vivi, l’ispirazione per il brano sembra essere nata in una stazione della metropolitana. Se l’impressione è corretta, mi racconti com’è andata quella giornata? Un “viaggio” brevissimo come una passeggiata in città può aprirti gli occhi su una realtà ben più ampia?

Siamo Vivi è frutto di diverse situazioni. Tra queste anche una passeggiata a Chinatown in un periodo in cui non avevo ancora chiaro cosa fare dal punto di vista lavorativo. È una canzone che parla di disoccupazione, che racconta dei tempi lunghi di chi non ha impegni e orari da rispettare. Prendere la metro con gli impiegati che guardano i loro orologi, scendere in un quartiere pieno di persone indaffaratissime, sono immagini potenti ed escludenti se non si ha nulla di certo per le mani.

Siamo Vivi è anche un bellissimo video animato, vagamente psichedelico. Come è nata l’idea di utilizzare questo tipo di linguaggio? È stata una scelta puramente estetica o determinata dalla volontà di rappresentare qualcosa che altrimenti avrebbe avuto un impatto meno potente?

Il video di Siamo Vivi è stato concepito e creato durante il lockdown. Insieme a Edoardo Rubatto e Gianluca Mamino abbiamo optato per le illustrazioni di Francesco Pavignano perché volevamo fare qualcosa di diverso rispetto a quanto stava uscendo in quelle settimane durante le quali i nostri occhi e le nostre menti venivano bombardati violentemente dalle immagini sgranate delle videochiamate, delle dirette Facebook, delle clip fatte con i cellulari. Volevamo trovare una soluzione alternativa, che fosse bella esteticamente e che provasse ad alzare l’asticella. Che poi è lo stesso discorso che con Fabio Grande abbiamo fatto per tutto ciò che riguarda la produzione e la registrazione del disco: la ricerca del bello ad ogni costo.

La tua voce e l’intonazione che usi in qualche brano mi riportano in particolare ad alcuni artisti. Ne cito tre: Federico Fiumani, Tricarico e Jovanotti. Hai mai trovato in loro una qualche forma di ispirazione?

Beh, Federico Fiumani è stato un maestro per me. Forse è il musicista italiano che ho ascoltato di più nel corso degli anni e per quanto io da tempo stia portando avanti un percorso personale è inevitabile che in ciò che faccio si rifletta in lontananza l’insegnamento e il modello della sua musica. Tricarico è un autore che ammiro molto. Forse però ciò che ci accomuna sono più che altro gli ascolti: immagino che anche per lui Rino Gaetano, De Gregori e Jannacci siano stati dei modelli. Francamente non vedo affinità con Jovanotti, anche se SIAMO VIVI potrebbe ricordare qualcosa del suo stile. Ma anche in questo caso non è frutto di un’ispirazione diretta quanto piuttosto -probabilmente- la passione comune per una certa scena americana.

Ci dai un’anticipazione sul tuo disco che uscirà dopo l’estate?

Fare questo mestiere, provare a campare di musica, è sempre più difficile. I tempi che corrono e il peso che hanno in questo settore sono sotto gli occhi di tutti. Insomma, non so che scenari arriveranno all’orizzonte. Sapere però di avere questo disco pronto e finito da presentare tra pochi mesi è un pensiero che mi rassicura. Con queste canzoni sono riuscito a mettere tutto me stesso nella mia musica, in un modo totale come non ero mai riuscito a fare prima, per cui, indipendentemente da come andranno le cose, questo disco per me è qualcosa di molto vicino al senso per cui tanto tempo fa ho iniziato a scrivere canzoni.