Se si dovesse descrivere Torū sarebbe più facile ricorrere a un film in bianco e nero o a uno di quei libri che ti lasciano in silenzio, con gli occhi chiusi e con la mano sulla copertina per almeno cinque minuti dopo averlo finito. È un’anima sensibile, quella di Elia Vitarelli, in arte Torū, che, dopo l’esperienza con i Fiori di Hiroshima, torna in una veste solista con il primo singolo “Soli”. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata e qualche riflessione sulla musica italiana.

 

 

Intervista a cura di Renato Murri

 

Nel libro di Murakami “Norwegian Wood”, Tōru è un personaggio tormentato che si rifugia dietro a un velo di malinconia e nostalgia, ma anche un personaggio con una sensibilità ed empatia delicata nei confronti del mondo che lo circonda e lo riguarda. Che altro c’è, invece, dietro alla tua scelta di chiamarti Tōru?

La scelta è stata dettata dalla voglia di definire un immaginario comunicativo che fosse coerente con questa sfera emotiva, caratterizzata da una forte componente sensibile. Questo perché credo sia necessario cercare di trasmettere, anche mettendosi a nudo, una sincerità di espressione che può avere varie sfaccettature. La malinconia, ad esempio, è un sentimento fatto di contrasti: citando Virzì,  è “quella specie di ovo sodo, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico”.  Molte persone tendono a desensibilizzarsi per paura di star male, ma io credo che sia importante farsi coraggio per ricominciare a sentire le cose, le parole e i concetti, e riuscire a crescere davvero.

“Tu spiegami cos’è che ci fa sentire soli e non più liberi”. Una frase che per associazione libera mi fa immediatamente pensare ad un’opposta affermazione di De Andrè che sosteneva: “La solitudine può portare a grandi forme di libertà”…

Certo, io credo che la vera libertà la si possa raggiungere solo in estrema solitudine, come ci insegna la storia di Cristopher McCandless. Non dimentichiamoci che la libertà è anche la forma più grande di responsabilità che ci si possa assumere. Detto questo, io temo che oggi viviamo in una società che ci rende soli sebbene circondati da tante, tantissime persone. Non siamo liberi perché siamo legati a “piccole abitudini”, continui tentativi di fuga dall’imbarazzo dello stare al mondo. Dobbiamo recuperare la voglia di comunicare davvero gli uni con gli altri , senza cedere al costante bisogno di gettare gli occhi su uno schermo, per paura di incrociare lo sguardo di un altro individuo.

Ascoltando Soli (Pulp Dischi, 2019) e la tua sete di scavare in una sensazione comune sempre un po’ difficile da riconoscere ad alta voce, mi hai ricordato Pasolini che affermava: “Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose”. È così anche per te?

Sì, assolutamente. Per riconoscere le cose bisogna, a volte, perdersi in se stessi per cercare di scoprirsi e scoprire ciò che non riusciamo ad ammettere. Occorre mettersi in discussione, farsi continue domande e capire che nel silenzio possiamo davvero riuscire a sentire noi stessi. Per questo non si deve temere la solitudine, bensì saperla conoscere per capirla e trarne vantaggio.

Soli fa venire in mente tanti altri brani omonimi di grandi artisti come Mina, Drupi, Celentano, Battisti… Quanto credi sia necessario ritornare a fare musica di un certo spessore? Credi che ci siano i presupposti per creare qualcosa di nuovo imboccando strade mai battute?

Credo che la risposta sia nella (giusta) via di mezzo. Sono molto legato a dischi di una certa epoca, con i quali sono cresciuto, e ad alcuni che ho riscoperto con gioia dopo anni. Sicuramente mi sento di poter dire che prima c’era un’attenzione maggiore a ciò che veniva proposto, sia nella forma che nei contenuti. Oggi credo che avremmo i mezzi per rendere ancora più raffinata la forma, ma abbiamo una grave carenza a livello di contenuti comunicativi. Per questo credo che un artista (o per meglio dire un “comunicatore”) debba cercare di sfruttare ciò che il progresso e il presente offre, ma assumendo un atteggiamento più responsabile e cercando di dire davvero qualcosa. Rischiamo altrimenti di finire in un mondo dove creiamo confezioni carine ed accattivanti, ma  completamente vuote.

“Il mondo dietro ai vetri sembra un film senza sonoro” (Celentano). So che nella vita non musicale lavori in un cinema. Ribaltando l’immagine di Celentano, che film rappresenterebbe meglio il tuo singolo?

Questa è una domanda bellissima, ma molto difficile. Ci sono moltissimi film che mi piacciono e che hanno influenzato la mia scrittura in questo senso. Forse, un paio dei più rappresentativi, in questo specifico caso, potrebbero essere “Buffalo 66” di Vincent Gallo e “Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino. Mi sovvengono questi due titoli , perché in entrambi i casi siamo di fronte a personaggi  che si ritrovano “al di fuori” della società. Sono lasciati a se stessi dalle persone che le circondano, anche dalle loro famiglie. Ma dentro hanno un bisogno vitale di stabilire una connessione con un loro simile (anche come nel caso del film di Sorrentino, lontano centinaia di chilometri), qualcuno che possa comprendere la loro natura ed accettarla per sentirsi finalmente a casa.

Disperatamente cerchiamo un campo di atterraggio in noi” (Battisti). Da poco Lucio Battisti è atterrato su Spotify, tra chi esulta e chi critica la scelta con un atteggiamento di gelosia e protezione. Data l’evidente influenza che Battisti ha avuto nel tuo singolo, che rapporto vivi con la discografia di questo grande artista?

Si potrebbe dire che effettivamente Soli senza Battisti non sarebbe probabilmente nata. Il mio rapporto con la discografia di Lucio è quello che si dovrebbe assumere nei confronti di ogni artista di questo calibro, ovvero di una grande ammirazione e soprattutto una continua curiosità spinta dalla voglia di imparare. Stiamo parlando in fondo di un personaggio che ha sempre cercato di affermare se stesso, reinventandosi ogni volta, con determinazione e coraggio e soprattutto con una forte volontà di creare qualcosa di davvero importante. Battisti è stato senza ombra di dubbio un genio che si è avvalso di un’umiltà e di una sensibilità artistica dalla quale tutti dovrebbero prendere esempio.

Mi piacerebbe concludere con una riflessione sul tuo stile, caratterizzato da un tono nostalgico per la “vecchia” musica cantautorale, rivisitata attraverso suoni più moderni che sembrano scelti non tanto per dare freschezza al suono, quanto per adeguarsi a un testo tipico di chi non si accontenta di rimanere in superficie…

L’uso di alcuni suoni deriva sicuramente dalla mia voglia di sperimentare e di dare una veste al brano. Su Soli ad esempio ho lavorato assiduamente, con una sessione di Logic durata quasi 12 ore: volevo che si definisse una dimensione sonora coerente con ciò che si esprimeva nel brano, cercando il giusto compromesso tra elementi elettronici ed acustici. Alla fine una canzone è sicuramente un misto tra contenuto e forma: si può trattare lo stesso concetto esprimendolo però in maniere molto differenti tra loro. Questo anche e soprattutto musicalmente. Ciò che mi è sempre piaciuto della “vecchia musica” cantautorale è il rispetto che si ha per questo rapporto. Basti pensare ad esempi in cui musica e testo sono a pari passo come “Non al denaro, non all’amore né al cielo” di De Andrè o “Orizzonti Perduti” di Battiato.