Tōru è il nome d’arte di Elia Vitarelli, toscano, classe 1993. Dopo la precedente esperienza musicale con i Fiori di Hiroshima, decide di dedicarsi a un nuovo progetto solista che nasce da una più profonda esigenza individuale di esprimersi confrontandosi direttamente con la propria interiorità.

Il nome del progetto ha un chiaro rimando al romanzo di Haruki Murakami, “Norwegian Wood”, di cui Tōru riprende determinati universi comunicativi.  Grazie all’uso del computer, si avvicina ad una dimensione elettronica che gli permette di trovare un giusto compromesso tra arrangiamenti caratterizzati da sonorità moderne e uno stile che allo stesso tempo mantenga al centro dell’attenzione una forma canzone comunicativa e concettuale.

Il suo disco d’esordio, co-prodotto e registrato da Nicola Baronti, si intitola “Domani” ed è uscito il 28 febbraio 2020. Abbiamo chiesto all’autore di presentarcelo, descrivendoci le singole canzoni. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

 

Soli

È la canzone chiave del disco, il primo brano che ho scelto, come una sorta di biglietto da visita per presentare il mio progetto. Soli, come ho già avuto modo di dire, è una confessione, un’ammissione di debolezza consapevole. Tratta di quella solitudine che si può provare perfino in mezzo a molte persone, quando ci sentiamo incompresi, inadatti. Una solitudine che, allo stesso tempo, può essere vinta trovandosi di fronte un nostro simile, quel qualcuno che fissandoci negli occhi ci fa capire che prova le nostre identiche sensazioni, resistendo insieme a noi. È forse il pezzo più “sociale” del disco: non parla soltanto di me, ma di una condizione umana che credo ci accomuni rendendoci proprio per questo “soli” ma insieme.

 

Rimini

Rimini è stata la prima canzone che ho scritto di questo disco. Per me è stata molto importante in quanto ha definito sia una dimensione sonora che concettuale che avrebbe poi dettato la direzione al resto del materiale. Sebbene sia basata su un episodio realmente vissuto, si tratta di una canzone molto introspettiva che parla di quel senso di malinconia che si prova una volta che tutte le luci si spengono, e tutto torna a essere immobile. L’atmosfera è certo marittima, ma è un mare, quello che ci troviamo di fronte, più simile a quello che si ammira nel finale de “La strada” di Fellini, al quale si parla con la speranza di perdersi in mezzo ad esso. A livello sonoro, ho dovuto fare molto lavoro prima di trovare un arrangiamento che mi piacesse, arrivando a una chiave abbastanza sperimentale. I gabbiani che si sentono a metà brano, ad esempio ,sono dei miei campioni vocali ritoccati e riamplificati.

 

Lady Paranoia

Strano a dirsi, ma è una canzone che mi sono ritrovato a scrivere non per me stesso, bensì per un mio amico che si ritrovava a vivere (momentaneamente) un sogno d’amore divenuto una sorta di incubo. Ovviamente sono tutte sensazioni che ho sperimentato anche io sulla mia pelle, quindi sebbene stessi raccontando una storia altrui, in un certo senso parlavo contemporaneamente di me. Il testo è piuttosto “giocoso”, salta da un’immagine a un altra in maniera volutamente confusionaria, cercando di replicare quella forma di confusione che si ha in testa quando la paranoia sembra impossessarsi delle redini strappandocele dalle mani. Musicalmente ho cercato di mescolare atmosfere beatlesiane con delle melodie ispirate dai dischi di Battiato. Credo sia il pezzo più “divertente” e leggero del disco.

 

A Testa Bassa

A Testa Bassa nasce dopo una conversazione avuta durante la produzione dell’album col mio produttore artistico, Nicola Baronti, nella quale ci siamo ritrovati a chiacchierare di quei campi che d’estate si illuminavano di lucciole, ma che oramai sembrano (quasi) esser scomparsi. In quel momento, quasi per gioco, mi chiesi se questa sparizione non fosse stata colpa di tutti quei bambini che, per una monetina sotto a un bicchiere, avevano fatto spegnere tutte queste piccole luci scintillanti. Da lì ho cercato di raccontare la storia di una persona qualunque che, crescendo, pian piano inizia a spegnere queste piccole luci interiori, barattandole con una forma di sicurezza o di stabilità, senza accorgersi, però, di star sparendo insieme ad esse. Nonostante sia musicalmente molto leggera e addolcita dall’arrangiamento d’archi, trovo forse che si tratti di uno dei pezzi più “crudi” dell’intero disco.

 

Stanza

Una canzone nata da una scomposizione ritmica del brano Videotape dei Radiohead, sulla quale ho cercato poi di creare un filone sonoro che definisse un ambiente musicale che si dilatava, allargandosi e distendendosi. Stanza parla dello stringersi assieme nonostante ci siano cose più grandi di noi, come lo scorrere delle cose e della vita, lasciandosi andare e mostrandosi all’altro senza paura di rivelarsi per come si è. Scendendo le scale, tenendosi per mano per arrivare a dimensioni più intime al di là della banalità del mondo moderno, fatto di chat ed apparenze. In poche parole, è una canzone che parla della bellezza di innamorarsi.

 

Rebus

Rebus è stato l’ultimo tassello che ha completato la stesura dell’album, scritta come lettera di “scuse” per la persona senza la quale non avrei probabilmente scritto una gran parte di questo disco. Rebus parla di me nella maniera più onesta possibile, senza maschere o mistificazioni: è una confessione su quello che io sono e su come vedo lo stare insieme. Personalmente, essendo una persona veramente molto analitica, tendo a sviscerare gli argomenti e le emozioni fino a che queste non diventano tribolazioni quasi machiavelliche. Rebus in questo senso è un inno alla spontaneità di alcuni momenti che vanno oltre la logica e la razionalità, ma che sono talmente semplici da diventare perfetti. Quegli istanti passati insieme ad una persona che, senza progetti né macchinazioni, si colorano di bellezza e in cui tutto il peso del mondo sembra, per un attimo, svanire.

 

L’Aquilone

Se dovessi accostare a una scena questo brano, forse sarebbe la scena di chiusura del film “I 400 colpi” di Truffaut. È una canzone che parla della nostalgia e dell’incertezza che si prova nel crescere, una storia che racconta la necessità di imparare a lasciare andare il passato e le cose che ci tengono ancorati ad esso per poter andare avanti e “volare” più leggeri in questo mondo. È sicuramente uno dei testi che ritengo più riusciti all’interno dell’album, i fiati inoltre riescono a dare un tocco di malinconia che caratterizza tutto l’accompagnamento.

 

Il Vento

Il Vento è stato un brano che ha avuto più forme musicali prima di arrivare al suo arrangiamento definitivo. Inizialmente ho avuto qualche difficoltà a trovare il vestito giusto per questa canzone, passando da chiavi totalmente acustiche ad alcune più fredde ed elettroniche. Grazie al cielo però l’intervento di Nicola Baronti, che ha curato la produzione del disco, è stato risolutivo in questo senso, ed è riuscito a dare al pezzo una sua forma molto coerente con il resto del materiale. Il finale del brano sicuramente è una delle parti musicali che funziona di più all’interno dell’album, con il sommarsi degli archi e dei fiati che si “rispondono” gli uni con gli altri. Il testo, sebbene possa comunque adattarsi piuttosto bene a storie comuni, trattava in origine di una prostituta che si ritrova sola in mezzo alla notte a “parlare” con il vento, lasciando che questo portasse via con sé i suoi pensieri e le sue paure.

 

Nello Spazio

David Bowie è stato per me un artista importantissimo, un punto di riferimento per quanto riguarda la creatività e la scrittura. In questo brano ho deciso di omaggiarlo raccontando un’altra odissea spaziale come metafora della depressione e dell’alienazione sociale. Il protagonista, oramai perso nel vuoto, prega per incontrare una “creatura strana” che possa tendergli la mano e salvarlo portandolo via con sé, lontano da ogni cosa. Fondamentalmente è il momento più “buio” del disco, un faccia a faccia con la paura della solitudine e del perdersi.

 

Domani

La fine del percorso, l’alba che nasce dopo il buio della notte. Domani è una sorta di ninna nanna che chiude il viaggio, nella quale si concentra tutto il significato dell’album. Vivere, nonostante le paure e le insicurezze affrontate, iniziando a capire che il futuro non è solo un concetto da temere bensì un’opportunità su cui scommettere, una responsabilità di cui ci dobbiamo far carico per resistere al presente insieme. Se la musica è stata ispirata dalle atmosfere di “Outside The Wall” dei Pink Floyd, il testo era in origine una lettera scritta per una persona a me cara, un incoraggiamento a vedere oltre il grigio e ricordarsi che al di là di esso c’è sempre, nascosto dalle nubi, un cielo azzurro.

 

Le foto sono di Matteo Casilli