Esordio solista per Andrea Poggio, già cantautore sotto le spoglie dei Green Like July, che con questa prima raccolta a suo nome getta la maschera, si presenta di persona, e riparte dal suono di “Build a Fire” del 2013. Ma lo fa abbandonando il folk per cui s’era fatto conoscere, abbracciando l’italiano come lingua in cui cantare e sciorinando dei testi senza fisime esistenziali o ammiccamenti snob che sono una vera boccata d’ossigeno.
Una sfida non da poco, ma decisamente vinta. Le nove tracce sono tutte ben arrangiate, con gusto classico, da musical o da colonna sonora da golden age del cinema, ma senza suonare altezzose. Manca del tutto la chitarra e il suono è fatto da un sapiente sovrapporsi e giustapporsi di archi, tastiere, fiati, con la batteria rock che lascia lo spazio ad un uso minimale delle percussioni, perché il ritmo viene costruito dall’intera orchestrazione e la batteria diventa piuttosto un contrappunto all’insieme, salvo i pochi casi in cui produce un tappeto ritmico costante. E poi la voce, eterea e gestista con padronanza negli ultimi Green Like July, che qui appare leggermente meno sicura, alle prese con la musicalità dell’italiano, ma comunque ben attrezzata, emozionate e incastonata con classe all’interno di polifonie o sequenze che ben si presterebbero ad un corale “call and response”.
Se volete trovare dei riferimenti ad altri artisti potete pensare a St. Vincent, a Brian Wilson, al Quartetto Cetra o a Battisti dopo l’abbandono di Mogol. Ma il carattere c’è ed è inutile sforzarsi di trovare termini di paragone. I testi, come anticipato, sono davvero una chicca, perché invece delle solite descrizioni di stati d’animo da genio incompreso, Andre Poggio non fa altro che comportarsi come una macchina senziente, con descrizioni uditive, visive, della resa fisica dei propri muscoli e apparati fisiologici mentre questi stessi si muovono nella città e negli spazi. La solitudine non è più una situazione che genera tristezza, ma uno stato di distacco che permette di godere in modo superficiale, ma non banale, del mondo. La città non è un più una giungla d’asfalto o un non luogo, ma uno smart spot denso di segnali sensoriali da elaborare. Sembrano i testi che avrebbe scritto un filosofo stoico o epicureo nella Grecia antica.
Passando alle singole tracce, l’iniziale Controluce parte già con le idee chiare, una melodia da musical ma con un suono minimal glitch in incognito; segue Addormentarsi, che accelera come una marcetta mitteleuropea, mentre la canzone eponima rallenta per raccontare con pudore lo spleen di Milano, quasi come certe creazioni melanconiche di Jannacci, qui riverniciate di fresco per l’occasione. È questa la traccia più meditativa delle nove presenti, assieme a Vento d’Africa, solo piano, archi e voce che fanno pensare a Gershwin e a certo jazz-pop da salotto. Meditarraneo e Miraggi Metropolitani sono invece i due momenti più elettronici del disco, il primo sostenuto da un’armonia vocale da classico del pop e da un ritmo quasi two step, una sorpresa se si pensa al passato folk-rock dell’autore; il secondo lanciato su un ritmo house per sostenere un cantato etereo e allungato come i suoni con cui flirta.
I Turisti e L’Autostrada fanno da sintesi di tutti gli spunti di Fantasma d’amore, con armonie vocali giustapposte e suoni elettro-acustici sovrapposti in modo complesso ma semplice allo stesso tempo, a celebrare le nozze dell’anno tra Accademia e pop. Chiude Ave Maria, dal ritmo rallentato e deformato. A questo punto speriamo che Andrea Poggio punti all’esordio a Sanremo, per completare la sua maturazione come autore per tutti i pubblici e tutte le età.
Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.