Castelbuono (Palermo), 8-11 agosto 2019

La fama ormai lo precede ed è quasi inutile ricordarlo. Ma chi non è mai stato a Ypsigrock, sappia che si tratta di un’esperienza difficilmente descrivibile. Qualcosa che va ben oltre il concetto di mera rassegna musicale. Che mescola la buona musica alla tradizione, lo spettatore all’artista, i suoni allo spirito. Raccontare tutto è impossibile, nessun report renderà giustizia a quello che è stato. Tanto vale concentrarsi sui momenti che non ci scorderemo.

 

1. Il sorriso di Davey Newington

 

 

Ecco una serie di considerazioni banali. In Sicilia fa caldo. Come mangi qui non mangi da nessun’altra parte. Torni a casa con due chili in più sul groppone. La giornata al mare ti sfianca. Molto bello, però c’è troppo casino. Dopo la doccia è tutta un’altra cosa. Per il concerto metto le scarpe, così sto più comodo. Pit-stop al bagno e poi tutti sotto il palco.

Ok, basta così. Azzeriamo il calcolatore e capovolgiamo il nastro. Primo giorno di festival, il clima è buono. Arrivo dritto dalla spiaggia, nessun cenno di cedimento, almeno per il momento. Sono sporco, il sale brucia ancora sulla pelle, ma non mi lavo. Ho la sabbia tra i capelli e sotto le unghie. Ma Castelbuono è già in festa. La gente, tanta gente, è una bellezza. Fame? Mangerò poi. Sosta in bagno? La farò dopo. Sul palco salgono i Boy Azooga, è il mio primo live di questa edizione di Ypsigrock. Lasciatemi stare. Mi dispongo in prima fila con le mie infradito.

Il chiostro dell’ex convento di Sanqualcosa è un posto stupendo. A quest’ora la luce entra solo di sbieco e rende i colori vivi. I Boy Azooga, per chi non li conoscesse, sono una band di Cardiff. Un intruglio di psych-rock, garage e pop. Roba che fa bene alla salute. Il loro disco d’esordio, “1,2, Kung Fu!” (premio al miglior titolo del 2018), mi è piaciuto parecchio. Beh, i ragazzi non deludono le aspettative. Anzi, le onorano. Rilanciano il doppio del piatto. A stroncarmi sono i sorrisi del leader Davey Newington, scodella bionda e sguardo sornione. 

È la gioia di suonare a Ypsigrock, penso. Sì, è proprio quello. Una gioia che dal palco rimbalza in platea per tornare indietro foderata di orgoglio e soddisfazione. Una carambola magica che fa di questo festival tra i migliori eventi musicali dell’anno. In Italia, ma anche all’estero.

E allora chi se ne frega se gli anni passano, i capelli cadono, il metabolismo rallenta e il Cin Cin Bar ora si chiama Naselli. Ho saltato un’edizione, ma qui tutto è rimasto lo stesso. Cambiano i nomi, ma i bar sono sempre gli stessi. Cambiano le band, ma la lineup è sempre di altissimo livello. Cambiano i manifesti, ma l’organizzazione resta impeccabile.

 

2. Matt Berninger e il cavo

 

The National (foto Elisabetta Brian)

 

Sotto questo cielo tutto diventa romantico. La passeggiata al castello è un fiume di ricordi. Il vecchio fan con la maglietta dei Ramones è un eroe neoclassico. Il panino alla salsiccia è poesia pura. E anche il cavo di un microfono, credetemi, può diventare un filo rosso. Di queste e altre svenevoli metafore, però, parleremo fra un attimo.

Prima bisogna parlare di Dope Saint Jude, rapper sudafricana al debutto in Italia, qui accompagnata da una deejay e una seconda voce femminile. L’impatto dell’artista di Cape Town, la prima in scaletta sul palco del castello, è fortissimo. Alla tecnica unisce fisicità, dinamismo e soprattutto contenuto. Quella che combatte sul palco è un’autentica battaglia per l’uguaglianza sessuale, sociale e razziale, a colpi di queer hip hop. Fin dalle prime note Dope Saint Jude si rivela la scelta più “importante” della lineup, l’ennesima dimostrazione di quanto Ypsigrock sia capace di distinguersi rispetto a chi insegue soltanto le mode del momento. Alla potenza di Dope Saint Jude, purtroppo, segue la deludente prestazione delle Let’s Eat Grandma. Le due musiciste britanniche, seppure su disco siano in grado di stupire, dal vivo risultano ancora troppo acerbe e senza identità. Peccato.

Ma arriviamo alla sdolcinata favola del cavo. Parliamo dei National, la band più attesa del festival, almeno per quanto riguarda i numeri. Matt Berninger e soci vengono da un album difficile. No, non ho detto brutto. Dico soltanto che “I Am Easy to Find” è un disco complesso, estremamente stratificato e duro da digerire. Prima di comprenderlo sono necessari più ascolti.

Nella prima parte del concerto i cinque di Cincinnati scelgono di eseguire ben dieci brani nuovi. Troppi, forse, ma di un’intensità tale da soddisfare anche i più scettici. Il cuore dei National si avvicina a piccoli passi a quello del pubblico, inizia a battere all’unisono, fino alla tanto declamata fusione tra artista e spettatore. È a questo punto che Berninger, intonando Day I Die, decide come di consueto di scendere dal palco e farsi una passeggiata in platea. Questa volta, però, è diverso. Il cavo del microfono si allunga fin sopra la scalinata del castello per poi dimenarsi in mezzo al cortile e srotolarsi a fatica verso il bancone del bar. Un abbraccio tira l’altro e la piazza si scioglie come una granita al sole.

Sarà quella storia che qui tutto diventa romantico, sarà che queste mura medievali si prestano bene alla fervida mitologia contemporanea. Sarà quel che sarà, ma quel filo nero stretto tra le mani di Berninger unisce gli sguardi di centinaia di fan e infiocchetta il miglior regalo che Ypsigrock potesse farci. Quello di un live da ricordare.

 

3. Il salto di Frederik Rabe

 

Giant Rooks (foto Elisabetta Brian)

 

Ognuno sta sul palco come meglio crede. C’è chi resta avvitato in mezzo metro quadrato e chi si dimena come un’iguana. In genere preferisco questa seconda categoria, con una predilezione per il salto. Sì, mi piace vedere i musicisti saltare, specie se hanno uno strumento in mano. Lo trovo contagioso. Come dire: se salti tu, salto anch’io.

Ecco, i giovanissimi Giant Rooks sono dotati di un ottimo saltatore. Il suo nome è Frederik Rabe, tedesco di 23 anni. Manco a dirlo è il frontman e cantante del gruppo. Suona la chitarra, i synth, ma soprattutto le percussioni. Dico soprattutto perché quando salta lo fa con una bacchetta in mano. La regge come se fosse un’arma, spicca il volo fuori tempo, in modo scomposto, e taglia l’aria con forza.

La sua energia ha attratto la mia attenzione su una band che difficilmente mi sarei fermato ad ascoltare. I Giant Rooks suonano un indie-rock da stadio fermo ai primi Duemila. Sembrano i Kooks e i Frightened Rabbit insieme, con la voce di un’altra giovane promessa, Fil Bo Riva. Nulla di nuovo, ma i pezzi ci sono (Wild Stare, New Estate) e il loro entusiasmo è coinvolgente. Se ti aggrappi alla bacchetta superi l’ostacolo con facilità. Se salti tu, salto anch’io.

 

4. Capitolo sorprese (e non)

 

Whispering Sons (foto Elisabetta Brian)

 

Il capitolo sorprese è sempre tra i più gustosi. Due nomi su tutti. Il primo è Pip Blom, una band olandese fresca d’esordio per la Heavenly. Il gruppo è composto da quattro bizzarri personaggi a cui non puoi non volere bene. Il loro sound nasce con le Breeders e si snoda sui lamenti rock di Courtney Barnett, con un pizzico di gioia di vivere in più. Il risultato è un guitar pop frizzantino che si inserisce in ottima posizione nell’elenco già splendidamente occupato da The Beths, Dream Wife, Sports e qualche altro nome al femminile.

La seconda sorpresa si chiama Whispering Sons. Questa volta siamo in pieno revival post-punk, tra i classici Joy Division e i Sister of Mercy, il tutto avvolto in un’aura glaciale tipicamente nordeuropea. Non a caso i Whispering Sons vengono da Bruxelles e vantano una cantante formidabile, dalla voce talmente cupa e potente che sembra quasi di sentire Peter Murphy. Se amate il frescolino anni ’80, dateci più di un ascolto.

 

Fontaines D.C. (foto Elisabetta Brian)

 

Tra le sorprese ci sarebbero da annoverare anche i Fontaines D.C. Il fatto è che il gruppo irlandese si è presentato a Ypsigrock con un seguito già così agguerrito da potersi conquistare il titolo di headliners nonostante siano al debutto live in Italia. Il quintetto di Dublino, con un solo album all’attivo (“Dogrel”), ha in canna un proiettile via l’altro. Too Real, Boys in the Better Land, Hurricane Laughter scuotono piazza Castello come solo i grandi sanno fare. Roba da strizzare la camicia dopo mezz’ora di concerto.

 

Whitney

 

A proposito di sudata, Max Kakacek dei Whitney ne sa qualcosa. Nel pomeriggio, un paio d’ore prima dell’esibizione dei Fontaines D.C. al castello, Max era l’unico al sole sul palco del chiostro. Il suo compare Julien Ehrlich, serenamente avvolto in un cono d’ombra, lo bullizzava da dietro la batteria. Max sorrideva bonario e soffriva in silenzio, mentre il pubblico chiudeva gli occhi sulle note di Dave’s Song, Giving Up e il classico No Woman.

 

5. La sedia di Jason Pierce

 

Spiritualized (foto Elisabetta Brian)

 

Ho una paura fottuta dei piccioni. Sono ostinati e crudeli. Sporchi e inzuppati di smog. Quando apro il balcone di casa, ne trovo spesso un paio appollaiati sulla ringhiera. Per questo lo tengo quasi sempre chiuso, esco solo per bagnare il gelsomino. È un bel guaio, perché a me i balconi piacciono. Mi piace soprattutto chi lo vive, il balcone. Chi ci mangia, chi ci riposa, chi prende l’aria sulla faccia. A Castelbuono c’è una casa con un balcone che si affaccia proprio su piazza Castello. Nei tre giorni di festival i proprietari si godono lo spettacolo da lì. Chi li ammazza?

Durante il live che chiude questa ventitreesima edizione del festival dedico una ventina di minuti a quel balcone. Questa sera ci sono due signore anziane e un loro coetaneo. Sono tutti e tre seduti su una sedia. Sul palco, nel frattempo, c’è un altro signore seduto sulla sedia. È Jason Pierce degli Spiritualized, un’istituzione del rock tutto.

Jason imbraccia la sua chitarra e alza la testa solo per cantare al microfono. Per il resto è immobile, concentrato, accartocciato sullo strumento. I tre anziani lo guardano ipnotizzati. Anche loro immobili, concentrati, accartocciati sulla ringhiera. C’è qualcosa che li lega all’artista inglese, non c’è dubbio. Come se la sedia di J Spaceman, prima del concerto, fosse stata presa dal balcone e spostata sul palco. Non un furto, ma un dono. Un pezzo di Castelbuono regalato alla musica, in un tripudio psichedelico che passa dalle note di Come Together, A Perfect Miracle, I’m Your Man, fino alla cover conclusiva di Oh! Happy Day. Il finale perfetto.

Paolo