Premessa
Non è per fare sempre il bastian contrario, ma il terzo disco dei Fontaines D.C. non mi sembra un’opera così incredibile come ho letto da molte parti. Insomma, è stato paragonato ad alcuni capolavori (vedi “Pornography” dei Cure), ma, detto francamente, non mi pare che raggiunga le vette citate. Lo dico senza acredine. Non pretendo di avere la verità in tasca, per carità. È semplicemente la mia opinione. Un giudizio come tanti, e quindi inutile e trascurabile.
Sia chiaro: i miei dubbi non si traducono in una critica selvaggia, anzi. “Skinty Fia” è certamente un bel disco. Intenso e piacevole nonostante le sue atmosfere cupe e poco accessibili. È un lavoro carico di significati, e questo gioca certamente a suo favore. E poi parliamo di un gruppo che è ormai sulla bocca di tutti, non può passare inosservato. Ma pur rappresentando un crocevia importante per la band irlandese, sono quasi sicuro che “Skinty Fia” non si trasformerà in un pilastro per la musica rock in generale. Ecco tutto.
Nelle mani del maestro
Esaurito il pippone di premessa, provo ad addentrarmi nel disco. Partiamo dalla produzione. Anche questa volta alla cabina di regia c’è Dan Carey. Un nome che letto così potrebbe non dire nulla. Ma basta andare a spulciare tra i suoi ultimi lavori per rendersi conto di cosa sia capace quest’uomo. Oltre a tutti i dischi dei Fontaines D.C., si dà il caso che Carey abbia prodotto buona parte delle ultime next big things inglesi: dai Black Midi agli Squid, fino al recente fenomeno Wet Leg. Insomma, come diceva mia zia parlando della sarta sotto casa: tutto ciò che passa dalle sue mani si trasforma in oro. Merito di un suono che pur mantenendo intatta la matrice rock-chitarristica, risulta pulito, preciso e patinato. In due parole: molto cool. Piace? Non piace? Io sinceramente avrei preferito qualcosa di più genuino e meno ruffiano. Qualcosa di più grezzo, insomma.
It’s evolution, baby
Passiamo ai cambiamenti proposti dalla band rispetto al recente passato. Dunque, il debutto dei Fontaines D.C., “Dogrel”, era una celebrazione di Dublino e dei suoi abitanti. Un post-punk abrasivo, a impatto immediato. Il suo seguito, “A Hero’s Death”, documentava invece la sensazione di disconnessione provata dal gruppo durante il tour. Qui il sound si era fatto più crepuscolare, ma i sogni di rock’n’roll continuavano a dominare le notti dei Nostri. In “Skinty Fia” assistiamo a un’ulteriore evoluzione. Quasi tutti i membri della band hanno abbandonato l’Irlanda. Ora guardano alla terra madre da lontano, sguazzando in un minestrone di nostalgia e desiderio di ampliare gli orizzonti. Questo cambio di prospettiva ha portato i Fontaines D.C. a plasmare di nuovo il loro suono a favore di un gothic rock anomalo, che ha ormai poco a che fare con il post-punk.
Questione di stile
Le influenze sono svariate, e dopotutto restano sempre le stesse, ma a cambiare è l’accento, la sfumatura dark-wave che prende il sopravvento. Joy Division e The Fall sono ancora lì, in cima alla lista, ma a questo giro si aggiungono Echo & The Bunnyman, Bauhaus e un po’ di indie americano (qualche linea di chitarra in salsa Interpol e i giri di basso palesemente rubati ai Pixies). A sorprendere, però, ed è questo il grande pregio del disco, è la capacità dei Fontaines D.C. di mantenere la distanza di sicurezza da tutti questi grandi nomi. Voglio dire: sappiamo benissimo che la band di Dublino non ha inventato nulla di nuovo, ma al netto di tre dischi e di tutti i predecessori ai quali si ispirano, non si può negare che abbiano maturato uno stile riconoscibile al primo ascolto. Questo significa personalità, e i Fontaines D.C. ne hanno da vendere.
Il problema della voce
Decisiva, in questo senso, è la voce di Grian Chatten. Lamentosa, salmodiante, monocorde. Riconoscibilissima, appunto. Un ingrediente fondamentale nella formula del gruppo. In questo nuovo album, però, traballa pericolosamente. Per la prima volta, infatti, il cantante abbandona il suo tipico spoken word per avventurarsi in brani davvero cantati. È allora che vengono fuori i suoi limiti tecnici. Perché diciamocelo, l’estensione vocale è quella che è. E alla lunga potrebbe anche annoiare. Per ora regge, mettiamola così, ma in prospettiva futura non vedo sviluppi alternativi rispetto a quello che ha già dato finora.
I pezzi, ricordati i pezzi
Sì ma, le canzoni? Beh, ce n’è una bellissima, il singolo Jackie Down The Line, che vale tutto l’album. Un pezzo che sembra procedere sulla superficie dell’acqua, lungo un oceano nero pece, con un brusio spumeggiante in sottofondo. C’è Roman Holiday, due accordi ripetuti all’infinito sui quali la chitarra solista ricama malinconica. Anche lei ottima, devo dire, e non per niente è diventata un altro singolo. Ma è doveroso citare almeno altri due brani. Il primo è la title track, che in qualche modo ricorda alcuni storici mash up tra ritmi elettronici e rock britannico, tipo The Test dei Chemichal Brothers con Richard Ashcroft o Scorpio Rising dei Death In Vegas con Liam Gallagher. Il secondo è Nabokov, il pezzo più vicino ai PIL mai scritto dai Nostri, sferragliante e tormentato. In questi due pezzi, forse, si intravede un possibile sviluppo della band. Chissà che nel prossimo disco non inseriscano un ulteriore strato industrial nel loro tappeto sonoro.
Per concludere
In sintesi si ritorna alla premessa. Un bel disco, a tratti bellissimo, ma non si grida al miracolo. Alla fine i due album precedenti sono piaciuti di più. I Fontaines D.C., comunque, sono giunti a un buon punto di svolta. La questione è che potrebbe servire un altro passo in avanti prima di poterli celebrare come la miglior band in circolazione. Lasciamo scorrere un po’ di hype, torneremo a discuterne più avanti. Poi oh, se la pensate diversamente, va benissimo così. Stiamo comunque parlando di miele.
Paolo

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.