Se gli Idles avessero continuato a sfornare dischi mantenendo intatta la formula di “Brutalism” (2017), la cosa non mi sarebbe affatto dispiaciuta. Dopotutto sono un ascoltatore semplice, cresciuto con i Ramones. I cambiamenti, le variazioni sul tema e i ritocchini qua e là, fatico a digerirli. Ai dischi della maturità ho sempre preferito l’urgenza di un debutto. Vuoi mettere? Si dà il caso, però, che la band di Bristol abbia intrapreso da subito la strada di una progressiva evoluzione. Un lento percorso che dal folgorante esordio li trascina in territori sempre nuovi, via via più sofisticati, pur senza rinnegare le proprie origini.
“Crawler” è l’ultima tappa di questa pericolosa avventura. Dico “pericolosa” perché il carrozzone degli Idles rischia ogni volta di schiantarsi contro il fortino corazzato dei fan di vecchia data. Nel 2018, con il bellissimo “Joy as an Act of Resistance”, era andata più che bene. Merito di una serie di brani-killer sostanzialmente ancorati al passato e di una rabbia che schiumava a temperature elevate in una stagione politica decisamente complessa. In quel disco, tuttavia, iniziava a svilupparsi il germe dei successivi ribaltoni. Colossus, il brano di apertura, spiazzava per la sua pesante andatura e per l’atmosfera a dir poco sinistra che si respirava soprattutto nella prima parte. La canzone anticipava di due anni ciò che sarebbe accaduto nel 2020 con il terzo album, l’acclamatissimo “Ultra Mono”. Un disco meno immediato del precedente, in cui la decostruzione del sound originario appariva già a uno stadio avanzato. Tutto suonava un po’ diverso, più farraginoso e ostile. Ma non per questo suonava male, anzi. Nonostante il mio ruolo di ascoltatore semplice e poco incline ai cambi di rotta, avevo continuato ad amare la band, a seguirla dal vivo e ad esaltarla nelle chiacchiere da bar. A preconizzare l’avvenire del gruppo, questa volta, era toccato a due singoli. Grounds, che alle chitarre mescolava un’elettronica minimale, sempre e comunque in chiave noise, e la quasi-ballad A Hymn, in cui Joe Talbot si scopriva improvvisamente dotato di una toccante voce da crooner sbilenco. Se per esercizio riascoltate questi due brani prima di tuffarvi nelle 14 nuove tracce di “Crawler”, il passaggio vi sembrerà naturale.
Bene. Ma come è andata a questo giro? Dunque, concentriamoci. L’ascolto del nuovo lavoro mette in luce innanzitutto un paradosso: nel prendere gradatamente le distanze dalle loro radici, gli Idles in realtà si avvicinano sempre più all’etichetta che era stata loro affibbiata fin dal primo album. “Crawler”, infatti, è il disco che risponde maggiormente agli stilemi imposti dal post-punk inglese. Lo fa con una certa disinvoltura e sicuramente in modo più incisivo rispetto ai suoi tre predecessori. Se un tempo le invettive della band si distribuivano spesso e volentieri sui ritmi alcolici dello street punk (con una particolare predilezione, tutta britannica, al coro da stadio), oggi la musica degli Idles abbandona quasi definitivamente quei vecchi cliché per abbracciare soluzioni di modernariato anni ’80, che in alcuni capitoli tende all’avanguardismo, in altri all’art-rock e in altri ancora all’industrial. Insomma: ora più che mai, si scorgono all’orizzonte le sagome di gruppi seminali come Pil, Pere Ubu e The Fall.
L’unico gancio con i primi album (debole, per la verità) è il quinto brano in scaletta, The New Sensation. Il resto del disco si distribuisce equamente tra quiete apparente e tempesta nucleare. Alla prima categoria appartiene sicuramente l’iniziale MTT 420 RR, una traccia dalle tinte oscure e inquietanti, limacciosa quanto basta per tornare con la memoria ai lamenti del Mark Lanegan più cupo e disilluso. The Beachland Ballroom, forse l’apice creativo di “Crawler”, procede a passo lento lungo lo stesso binario. La canzone prende il nome dallo storico locale di Collinwood, vicino a Cleveland, e per lo stesso Talbot è «la più importante dell’album… una sorta di allegoria sul sentirsi persi e sul riuscire a superarlo». Progress non è da meno, e aggiunge un tocco alla Nick Cave che in una tavolozza di colori ombrosi come questa non poteva di certo mancare.
D’altra parte, i temi affrontati nei testi di “Crawler” sono tutt’altro che briosi e sfumati. Gli Idles mettono in musica storie di traumi, tragedie sfiorate e dipendenze. Alla seconda categoria, quella della tempesta nucleare, appartiene The Wheel, un esempio lampante di questa apertura dell’autore alla complicata sfera privata. Il brano racconta infatti del difficile rapporto con la madre alcolista (“I got on my knees and I begged my mother, with a bottle in one hand”), in un mantra selvaggio in cui puoi sentire il ritmo frenetico di una vita al limite. Lo stesso vale per Wizz, una mitragliata hardcore di trenta secondi che (parola dello stesso Talbot) intende riprodurre la stessa sensazione data da un tiro di coca. Il testo, ha spiegato il leader della band, è composto dai messaggi dello spacciatore rimasti nella memoria del suo telefono dopo aver superato la dipendenza. E ancora, non possiamo non citare Car Crash, storia di un incidente d’auto che in qualche modo ha cambiato la vita dell’autore. Qui le chitarre diventano lamiere incandescenti, la batteria è robotica, martellante. La voce, effettata da Kenny Beats e Mark Bowen in fase di produzione, si contrae in un rap d’altri tempi. E a proposito di voce narrante, in Meds e in King Snake gli Idles giocano la stessa partita degli Sleaford Mods, con i quali peraltro si accese una sterile polemica nel 2020. When The Lights Come On, invece, sembra uscita dal secondo disco dei Fontaines DC.
E dunque che facciamo? Lo promuoviamo o no questo “Crawler”? Certo che sì. Anzi, a tratti lo preferisco al suo predecessore. Perché appare più compiuto e in equilibrio. Un’opera di passaggio (c’è da scommetterci) e tuttavia più compatta, sia nel contenuto che nei suoni. Poi oh, se fossi costretto a scegliere soltando un paio di dischi degli Idles, quelli da portare sull’isola deserta, opterei quasi sicuramente per i primi due. In fin dei conti resto un ascoltatore semplice. Mi piace quella roba lì.
Paolo

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.