A cura di Paolo Ferrari

Che palle. Vorrei attaccare questo report parlando di Torino, di quanto sia bella questa città e animato il suo centro. Vorrei spezzare qualche lancia a favore dei torinesi e della loro genuinità, di quell’innata e sincera asprezza che fa di questa gente un baluardo contro l’ipocrisia italiana. Vorrei, ma non posso proprio. Perché Torino, nei giorni del TOdays Festival, si mostra sempre in una forma inedita, mutante, festaiola. Una forma altrettanto smaliante, arricchita di uno sguardo che va ben oltre le piazze centrali e include la periferia in un abbraccio che sa di vittoria.

Sì, di vittoria. Perché portare la buona musica a Barriera di Milano (il quartiere che ospita il festival) e trasformare un’area spesso dimenticata in un laboratorio d’arte, innovazione e intrattenimento, significa soprattutto questo. Alla faccia di chi, da Roma, ha voltato di nuovo le spalle alle periferie, tagliando i fondi. La risposta di Torino, al contrario, è sotto gli occhi di tutti: da venerdì 24 a domenica 26 agosto, un fiume di oltre trentamila persone ha invaso lo sPAZIO211, l’ex fabbrica Incet e il Parco Urbano Aurelio Peccei per assistere ai live di artisti che la grande massa continua a considerare “di confine”. Eppure i confini, qui nell’ex capitale d’Italia, sono stati superati. La barriera è crollata. «Il nemico è scappato, è vinto, è battuto».

Tutto bene, dunque. Ma riassumere il senso di questa vittoria in un report è un’impresa complicata. Non ho voglia di soffermarmi sulle singole performance. Non ho voglia di tecnicismi, di giudizi sterili, di elucubrazioni fini a se stesse. Non ho voglia di elencare tutti i nomi delle band come al supermercato. E allora? E allora, per provare a mantenere intatta la bellezza di questa quarta edizione del Todays Festival, ho preferito portarmi a casa sei immagini. L’ordine è del tutto casuale, non c’è alcuna suddivisione per giorni, orari, luoghi. Va così.

1. La gobba di (Notre) Adam

Un amico che è stato in Vietnam mi ha raccontato dei tunnel di Cu Chi, una rete di gallerie sotterranee scavata dai Viet Minh durante la guerra. Insomma, molte donne vietnamite, a furia di percorrere sulle ginocchia questi cuniculi così bassi e stretti, sono rimaste per sempre curve, ingobbite dal peso, dalla sofferenza e dall’ardore della resistenza. Ecco, svuotando ignobilmente questa immagine del suo valore storico, politico e dannatamente tragico, ho provato ad accostarla a quella di Adam Granduciel, leader indiscusso dei War on Drugs, headliner della prima giornata del festival. La sua schiena è piegata sulla chitarra. Sempre. Resta inalterata anche quando non imbraccia lo strumento, proprio come quelle donne inarcate dagli anni trascorsi nei tunnel.

Ognuno porta sul corpo i segni del proprio passato, si dice. Un passato che nel caso di Granduciel parla attraverso la sua sei corde, che sia una Fender, una Gibson o la Les Paul Deluxe del ’72. Il rapporto viscerale e duraturo con la chitarra lo ha trascinato in un presente gibboso, fatto di lunghi assoli e cavalcate infinite tra le steppe del rock americano. I War on Drugs al TOdays attaccano con Baby Missiles e chiudono con In Chains, ma l’impressione è che il live sia costruito su un’unica, enorme canzone. Alla lunga la band può anche annoiare, la concentrazione dello spettatore può venire meno. Ma che meraviglia, ragazzi. Chi ha detto che le guitar band sono morte?

2. Nome del panino?

Il primo ha la canottiera rossa con i profili blu in rilievo. Sul petto una scritta sempre blu, tipo “Hurricane”, ma non c’entra niente con Bob Dylan. Il pelo neomelodico latino fa capolino con orgoglio da sotto la scollatura. A nulla è servita la ceretta di fine giugno. Il capello, al contrario, è addomesticato con una dose massiccia di gel. Così il ciuffo risulta lucido, lucidissimo, bloccato in un istante che si fa eterno. Il secondo, invece, ha l’aria di chi è appena uscito da una trattoria della bassa. Ha una maglietta grigia infilata nei pantaloni, con un paio di patacche non meglio identificate. Mi piace pensare che siano di mostarda, ma chi può saperlo? Sul versante tricotico, non ha nulla da invidiare al primo. Ma anziché la brillantina, sembra aver utilizzato quei pennelli da griglia con cui si ungono le costine.

Una fame atavica mi porta a osservarli entrambi in rapida successione. Il primo lavora al chiosco di angurie e altre porcherie appena fuori dallo sPAZIO211. Quando gli ordini un panino alla salsiccia e crauti, lui ti risponde sempre, inesorabilmente, con una domanda: «Nome del panino?». «Che ne so – gli dici – salsiccia e crauti. Non ha un nome». «No, dimmi il tuo nome – ribatte il Canottiera – così quando è pronto ti chiamo». «Ah, ok, allora facciamo Phil Anselmo». Il secondo, nel frattempo, sale sul palco e inizia a fare casino. È Ariel Pink ed è più in forma che mai. Deve essere stata la mostarda.

3. La gigantesca scritta LIDL

Un ecomostro di cemento domina il Parco Aurelio Peccei di via Cigna. È lo scheletro di un palazzo mai terminato. Una struttura dal fascino ambiguo e decadente. Un diamante grezzo, per dirla con Fiumani, “come d’asfalto una rosa”. Tutto intorno si innalzano i casermoni dell’hinterland e qualche albero spelacchiato ancora troppo giovane per fare la sua parte. Qui si esibisce MYSS KETA (scusate, si scrive in capslock, altrimenti si incazza), con il volto coperto dal solito velo e le tette ben in mostra. L’artista milanese porta sul palco uno spettacolo forzatamente trash, che nonostante i miei sforzi sfugge alla mia comprensione. A sculettare con lei, comunque, ci sono centinaia di fan, e soprattutto “le ragazze di Porta Venezia”, le sue due ballerine. Tutto sotto controllo, insomma, ma la mia attenzione è concentrata sulle tre vecchiette del quartiere sedute su una panchina nelle retrovie. Durante il concerto il loro sguardo è al limite tra lo sconvolto e l’arrapato. Sullo sfondo svetta un parallelepipedo grigio e bianco con la gigantesca scritta LIDL. È stupendo, non potrei avere di meglio.

Questa location mi riporta alla prima giornata di festival. Da “ecomostro” a Colapesce, infatti, la strada è più breve di quanto si possa pensare. No, non è una critica al buon Lorenzo (Urciullo, il vero nome del cantautore siciliano), anzi. Basta sostituire una lettera ed ecco il titolo del suo penultimo disco, “Egomostro”, di cui a Torino suona in realtà ben poco, forse soltanto Reale, la title-track e Maledetti Italiani. Ma chissene frega della scaletta. Quello che voglio dire è che pur non essendo mai stato un fan di Colapesce, ho apprezzato molto il suo live di Torino. Al suo fianco suona una band francamente impeccabile, muscolosa e precisa. I brani, almeno dal vivo, sono impreziositi dalla presenza sul palco di Adele Nigro (Any Other), alla chitarra, sassofono e cori. Una donna che conta, insomma, ma per davvero. Evviva.

4. Il cappello e la sciarpa di Fellini

Per non farmi mancare nulla, in questi tre giorni a Torino sono stato anche al Museo del Cinema. Bello, interessante. L’occhio della madre, la carrozzella col bambino, il montaggio analogico di Sergej Michajlovic Ejzenstejn. Sì, certo, tutto fantastico. Io, però, mi emoziono di più di fronte alle stupidate. Amo gli oggetti. Mi piace pensare che quella cosa lì sia appartenuta a quel mio idolo lì. In sostanza, c’erano il cappello e la sciarpa di Fellini esposti in una teca. E alla vista, ho iniziato a sguazzare in un brodo di giuggiole.

Anche perché con gli occhi, e soprattutto con il cuore, viaggiavo ancora sulle note dei Mogwai. Il loro è stato il solito, mastodontico spettacolo nucleare. Un’esplosione sonora capace di scaraventarti ben oltre via Cigna, verso mondi immaginari che fanno tanto bene al corpo e allo spirito. «Nulla si sa, tutto si immagina», diceva Fellini. Ed è esattamente quello che accade lasciandosi investire dalle bordate di chitarra di Stuart Braithwaite e soci. La musica dei Mogwai evoca un mondo che non esiste o che semplicemente non c’è più. Qualcosa di più affascinante della realtà originale, che si rivela soltanto grazie alla collaborazione dello spettatore. Con un’unica differenza: se nell’universo felliniano ci si immerge ad occhi aperti, in quello della band scozzese è preferibile chiuderli e prendere il volo.

5. Tramonti polarizzati

Ad aprire il festival ci hanno pensato gli Indianizer. Ok, c’erano anche i Bud Spencer Blues Esplosion, una sicurezza al granito e sangue. Ma gli Indianizer sono musicisti grandiosi, divertenti, mai scontati, che meritano la palma di migliori artisti italiani del Todays. Ok, l’ho detto. Nella sezione stranieri, invece, alla voce “circlepit”, vincono a mani basse i King Gizzard & The Lizard Wizard. Ad eccezione di Doom City, se la memoria non mi inganna, il combo australiano ha sparato tutte le cartucce migliori, da Rattlesnake a Cellophane, fino a People-Vultures. Sotto il palco si sudava come tanti piccoli Giuliano Ferrara chiusi in un bagno cieco. E poi si lottava, chi per la gloria, chi per sfuggire all’autunno che avanza.

La terra entrava nel naso e impastava i capelli. Ma non pensate a Woodstock, non è il caso. Pensate piuttosto a chi, dopo aver perso gli occhiali da sole in mezzo a quella tempesta di gambe, è riuscito a ritrovarli a terra intatti, senza nemmeno un graffio, come su un espositore di Salmoiraghi & Viganò. Non me ne voglia Cosmo, che durante la sua esibizione all’ex fabbrica Incet non ha nemmeno tentato il suo proverbiale stage diving (fosse punk), ma qui la battaglia è stata ben più dura, sincera, fisica. Dopo il concerto, il sole è tramontato dietro il chiosco delle birre. Guardarlo in faccia con le lenti ancora integre è stata una goduria.

6. L’uomo con il binocolo

Per trovarlo ho nuotato in un mare di ormoni. Ragazze impazzite per Tom Smith che neanche Alain Delon in “Rocco e i suoi fratelli”. Ho visto scattare centinaia di foto: lui che canta, lui che balla, lui che si piega verso il pubblico, lui che si aggiusta il ciuffo, lui che indica il cielo con un dito. Insomma, nel pieno di questo autentico psicodramma femminile per il leader degli Editors, ho individuato un omino buffo dall’approccio decisamente più lo-fi. Stava appoggiato al muro di cinta dello sPAZIO211, con una specie di gilet di pelle che sarebbe tornato utile ai vecchi fan degli Echo and The Bunnymen (a proposito, grande concerto il loro). A un certo punto l’omino ha estratto dalla tasca un binocolo da piccolo esploratore, ha infilato il cordino intorno al collo e ha iniziato a scrutare verso il palco. Scrutare cosa, poi, è tutto da capire, visto che il palco era appena a una decina di metri. Ma mi è piaciuto il suo modo di guardare e pensare in grande. Perché per uno come lui sono i dettagli a fare la differenza.

Lo stesso si può dire per gli Editors, una macchina da concerto come non ne vedevo da tempo. Avevo abbandonato la band al secondo disco, prima del grande successo. L’ho ritrovata al TOdays più agguerrita che mai. Compatta, potente, senza alcuna sbavatura, arrampicata su una scaletta che non ha deluso i sostenitori della prima ora. Un finale degno di questa tre giorni piemontese.

 

Guarda la gallery fotografica a cura di Martina Marzano:
TOdays Festival 2018