Scrivere una recensione sull’ultima fatica dei Rolling Stones è un’impresa ardua. I motivi sono essenzialmente due. Da una parte c’è il fatto incontrovertibile che si sta parlando di una delle più grandi band della storia, vere e proprie divinità del rock’n’roll che hanno scritto pagine immortali della musica del Novecento. Dall’altra, invece, la considerazione che da almeno quattro decenni Jagger, Richards e soci vivono di rendita e che di album perfetti non ne hanno più nemmeno lontanamente scritti.

A voler essere pienamente sinceri, a buttare merda sui vari Vasco e Ligabue, forse perché sono italiani e quindi una copia di ciò che già era avvenuto nei paesi anglosassoni, tutti si sentono in diritto di farlo. Farlo con gli dei dell’Olimpo è invece tutto un altro paio di maniche. Da “Emotional Rescue” in poi, e quindi dalla bellezza di ben nove album di inediti, i Rolling Stones hanno infatti sempre azzeccato qualche perla, ma al contempo non si sono mai fatti mancare tanti, a volte troppi, riempitivi. Lo stesso discorso vale anche per “Hackney Diamonds”.

Un capolavoro c’è, si intitola Sweet Sounds Of Heaven, ed è stato pubblicato in anteprima come secondo singolo. Vede la partecipazione al pianoforte e al Fender Rhodes di Stevie Wonder e alla voce femminile di Lady Gaga. È un soul di rara intensità, che riesce a far accapponare la pelle. Ci sono anche altri brani all’altezza del marchio leggendario Rolling Stones: la punkeggiante Bite My Head Off, già storica anche grazie alla partecipazione al basso di Sir Paul McCartney, il country rock figlio di Gram Parsons Dreamy Skyes, il solito zampino del signor Richards in Tell Me Straight.

Peccato, però, che ci siano anche delle brutture assolute come Mess It Up, un brano che ci fa capire che quando Jagger parla in termini entusiastici dei “nostri” Maneskin ci sia la possibilità oggettiva che non stia mentendo. Il sogno è che questi splendidi, perché splendidi lo sono, ottantenni, decidano di regalarci un addio definitivo che sappia del blues della conclusiva cover di Muddy Waters Rolling Stone Blues. Un finale che già avevano anticipato con quel “Blue and Lonesome” di ormai sette anni fa. Un finale bellissimo e forse solo rimandato.

Rimane comunque una lezione indiscutibile di (pop) rock impartita da una band di maestri ancora oggi sublimi e portatori di ben 233 anni in tre. In più ci sono le ultime registrazioni di Charlie Watts e un cameo di Bill Wyman. Mica poco. Ma proprio per niente.

Andrea Manenti