Ormai qualche tempo fa, in un gelido fine anno, un mio caro amico insistette per farmi vedere un capolavoro. Era un ciclone di colori, dove il rosso dominava in un misterioso universo di incubi. Iniziava con un avventuroso viaggio in auto, sotto la pioggia, e l’orrore si mescolava al glamour, grazie a quel genio di Daria Nicolodi.
Suspiria mi travolse come un regalo inatteso, felice di non averlo mai visto e di averlo amato con occhi voraci; con orrore ho accolto l’idea di un remake, chiedendomi il motivo e la scelta di un regista come Guadagnino, antitesi di Dario Argento.

Poi ho osato. Il dubbio si è trasformato in entusiasmo ed ho capito di aver sbagliato prospettiva, che il nuovo Suspiria è da vedere senza confronti con l’originale, scheletro da cui nasce un’opera complessa e cupissima.

Suddiviso in capitoli, narra la discesa di Susie all’inferno, in un horror che unisce atmosfere esoteriche al soprannaturale. Trascurando gli effetti speciali, si addentra nell’incubo, in un mondo gelido, dove tra le tenebre suonano tamburi intonati a morte. Il conteso è una scuola di danza (ambientazione strepitosa in un albergo di Varese), dove tra follie e giochi di potere, l’ambiguità cede il passo ad una danza macabra.

La regina della scuola è un’insegnante androgina (Tilda Swinton), l’atmosfera è quella dei una possessione terrifica. In un simile mondo i caldi colori della pellicola di Argento si cementificano nel freddo del grigio, dell’azzurro e del nero, scagliandoci nell’incubo.

Guadagnino si spinge oltre, tornando a “Io Sono l’Amore”, dove il femminile è potenza creatrice e distruttrice, in una dimensione esistenziale dove coesistono cattive madri e madri non sufficientemente buone.

Brava Dakota Johnson, che regala spessore a Susie Bannion, scialba e attonita nel film di Dario Argento, erotica e spettrale in quello di Guadagnino. Bella la trasposizione Amish, sia iconograficamente, sia sulla costruzione del personaggio della protagonista, inesorabilmente macchiata dalla colpa.

Suspiria è il trionfo del femminile, tra peccato e condanna, violenza e rinascita, nel trionfo del sabba finale. Qui l’orrore si satura in immagini rarefatte, in un affresco che scompare, dove l’inconscio si perde nel thanatos di un’estasi atroce (non casuali i richiami al nazismo, che intrecciano tutto il film).

Più vicino al Faust di Sokurov che alla filmografia horror degli anni ’70.
Bella colonna sonora disperata di Thom Yorke, alcune scene pazzesche come quella della danza nella sala degli specchi della povera Olga, i sogni è il finale (a parte una delle streghe che ricorda vagamente Pizza the Hutt di Balle Spaziali) alla Salò.

Si vocifera che l’identità del vecchio dottore, sia in realtà quella di Tilda Swinton, scelta geniale, che conferma il potentissimo universo femminile del film.

Il Demente Colombo