Quando a illuminare la stanza di un sinistro bagliore sono le fiamme di “Apocalypse now” e a commento Jim Morrison inizia a declamare This is the end, beautiful friend. This is the end, my only friend, the end, ecco che qualcosa di grande, molto più grande di noi, sta per compiersi. Diciamola bene: il potenziamento delle suggestioni trasmesse dalla pellicola restituiscono il ritratto vivido di un paesaggio che è composto da musica e immagini in movimento, che tuttavia i caratteri di entrambe le forme espressive non esauriscono.

Giunti ai confini del quadrilatero del cinema di Torino, gli sguardi stropicciati della domenica mattina si schiariscono lietamente tra le volte dell’aula del Tempio dentro il Museo Nazionale del Cinema: ci aspetta la mostra #soundframes Cinema e musica in mostra. Uno straordinario sviluppo lungo tutta la rampa elicoidale dell’aula che consta di 9 aree tematiche, oltre 130 sequenze di film proiettate su 60 schermi, per un totale di 90 metri di proiezione lineare. Insomma, un grande e inesauribile lungometraggio che racconta la magica storia d’amore tra le immagini e il suono.

Rettifica preventiva, innanzitutto. La musica non “commenta” mai, è parte determinante nella costruzione dello stesso montaggio filmico. Per Hitchcock, Kubrick, Visconti e moltissimi altri è un vero e proprio personaggio in dialogo permanente con il racconto e le pieghe della storia. Siamo sicuri che senza le musiche di Gottfried Huppertz in “Metropolis” l’espressionismo tedesco sarebbe stato lo stesso? Intuiamo così che il cinema, anche muto, non è mai stato silenzioso.

Sin dalle origini, pianisti più o meno dotati eseguivano brani di repertorio che dagli anni Venti diventano composizioni sempre più raffinate e articolate. Di lì a poco, con film come Il cantante di Jazz e Resurrectio, la musica deve vedersela con l’avvento del sonoro, ad oggi il più grande “strappo” nella storia del cinema, e tanto basta a rivoluzionarne le prospettive. Il musical diventa presto il genere celebrativo per eccellenza della narrazione musicale.

Gli anni Trenta di Fred Astaire e Ginger Rogers sono segnati da compositori quali Irving Berlin, George e Ira Gershwin. Ma è il 1961 l’anno della svolta, con lo straordinario successo di “West Side Story” di Robert Wise e Jerome Robbins, impreziosito dalle musiche di Leonard Bernstein, di cui proprio quest’anno si celebra il centenario della nascita.

Attraversando gli schermi, emerge in tutta la sua complessità l’idea che i generi, dal cinema d’autore fino al videoclip (c’è il meglio delle produzioni degli ultimi trent’anni, da Video killed the radio star a Daydreaming diretto da Thomas Paul Anderson), passando per l’horror e il documentario, ciascuno con la sua grammatica, non abbiano fatto altro che rendere immagini e suono tanto più inscindibili quanto più liberi di scoprirsi autosufficienti.

In “Arancia meccanica” l’Ouverture della Gazza ladra di Rossini reclama un ruolo inedito, attivo e suggerisce elementi di senso non necessariamente inseriti nelle immagini. Proprio come ai tempi di Ejzenstein e del suo “Manifesto dell’asincronismo” oggi tanto cinema, e più in generale il visivo, è concepito “musicalmente”, allontanandosi di molto dal mimetismo delle origini.

Semplificando, potremmo dire: cinema “o” musica perché è nella continua dinamica oppositiva tra questi due poli che si gioca la nostra fruizione. A questo punto ci sentiamo in dovere di suggerire una piccola modifica al titolo della mostra, dopotutto di una sola vocale.

Alberto Scuderi