C’è poco da sorridere se prendiamo in considerazione l’ultimo anno e mezzo, fra pandemia più o meno passata e crisi economiche prossime venture. A volte, per trovare un sorriso o solo un appiglio, ci rifugiamo nella musica. Ma di nuovo (grazie Covid-19!) se parliamo di musica e allarghiamo lo sguardo, il sorriso svanisce e ci ritroviamo davanti un’ecatombe di concerti e festival cancellati, artisti e indotto in grave difficoltà, un settore pressoché dimenticato dai politici che minimizzano il ruolo dei musicisti derubricandoli a meri giullari “che ci fanno divertire”.

Ma il rock italiano in tutto questo disastro come sta? Bella domanda, la risposta dipende probabilmente da cosa intendiamo con questo termine fastidiosamente onnicomprensivo. Il dibattito pubblico recentemente si è parecchio infervorato per le mirabili gesta di una giovane band italiana (ne avrete sentito parlare) che incide per una major, proviene da un talent show, rimastica suoni di 50 anni fa e si è aggiudicata in questo 2021 sia il festival della canzonetta italiana che il tremendo baraccone dell’Eurovision. “Il popolo dei social” ™ ha decretato che finalmente il rock tricolore ha vinto, polarizzando le discussioni in rete per la durata di un hashtag. Verrebbe quasi da sorridere.

Per chi è interessato a un’altra idea di “rock”, per corredare la quale ci sentiamo autorizzati a rispolverare il travisato termine “indipendente”, fortunatamente qualcosa si muove e il sorriso lo ritroviamo presto. Una di quelle cose viene da Torino, motor-city tricolore sovente culla di notevoli fermenti artistici che da quell’humus post-industriale traggono linfa, città oggi in grave crisi di identità. Stiamo parlando degli ingooglabili Smile (ora si spiega tutta la intro sul sorriso!), quartetto formato da Michele Sarda (Neverwhere, Swörn, New Adventures in Lo Fi, Squirrel), Hamilton Santià (Somewhere Between, Squirrel), Francesco Musso (Maniaxxx, Lay) e Mariano Zaffarano. Il loro album di debutto si intitola “The Name Of This Band Is Smile” (sì, il titolo fa un po’ il verso a quell’album live dei Talking Heads) pubblicato il 26 marzo 2021 per Dotto e Subjungle.

Per i trentenni, la società di oggi riserva soprattutto precarietà e alienazione. Dinamiche sociali già vissute (magari dai ventenni) negli anni ’70, ’80 e ’90. Nei casi più fortunati, alcuni, più intraprendenti, imbracciavano le chitarre e quel disagio lo trasformavano in musica spigolosa e tesa, unica arma per combattere il grigiore, la quotidianità insostenibilmente monotona, l’omologazione, la mancanza di prospettive. Davanti a una società che il capitalismo sta portando al collasso, mentre la dimensione collettiva è diventata somma di solitudini singolarmente esposte davanti a uno schermo, di fronte a preoccupanti tendenze regressive su diritti in genere e sulle prerogative della working class in particolare, l’unica risposta possibile per gli Smile è liberare scariche elettriche per dare sfogo al disorientamento, alla mancanza di un senso, all’insofferenza.

E senza bisogno di banali slogan politicizzati, perché questa musica è già di per sé atto politico inequivocabile. La musica degli Smile racconta il mondo in crisi, le sue inaccettabili disuguaglianze, i lavori alienanti, il fall out del consumismo estremo, il clima di incertezza personale, politica, sociale. Gli Smile parlano di un malessere esistenziale e generazionale che si sublima in momenti di pop palpitante e vivo, nonostante tutto. Storie di normale lotta e disagio metropolitano, a partire dalla bellissima copertina che raffigura un esempio di architettura brutalista.

Storie che raccontano un presente incomprensibile, distillate in canzoni da tre minuti, a colpi di rabbia appena sfumata dalla orecchiabilità del pop, sincero e senza filtri, chitarre elettriche al servizio della melodia, sia quando feriscono come facevano quelle dei Mission Of Burma, sia quando suonano vivaci come quelle dei Lemonheads. Ritmi perlopiù upbeat, sopra cui funzionano ancora meglio i testi decisamente scuri. “The Name Of This Band Is Smile” è un lavoro improntato sull’urgenza: solo 8 tracce, meno di trenta minuti, sufficienti perché avvenga la folgorazione dell’ascoltatore sulla via di Athens o di Minneapolis.

Dentro c’è condensato il meglio dell’indie-rock che in passato ci ha fatto battere il cuore; l’irrequietezza dei primi R.E.M, le nevrosi dei Feelies, la grinta dei Replacements e l’epopea di tutte quelle band statunitensi misconosciute finite dentro “Strum & Thrum”, mirabile raccolta della Captured Tracks che racconta il passaggio da post-punk e hardcore a college rock. Quelle band che prendevano la tradizione jangle pop, attaccavano i jack agli ampli mezzi scassati e li facevano friggere a furia di power chords, quelle per cui la cosiddetta etica DIY non era vessillo da sbandierare, ma stato di necessità. Musica votata al minimalismo formale e all’essenzialità, la formula classica composta da basso, chitarra e batteria, un lavoro di sottrazione per niente facile.

Nulla di nuovo per quanto riguarda la scelta della cifra stilistica, il post-punk e il jangle-pop non se lo sono inventati mica gli Smile. Ma questa musica veicola una dolorosa autenticità, grazie a ritornelli che vi faranno urlare come quelli cantati a squarciagola da Paul Westerberg e Pete Shelley. Non parlerei comunque di retromania, nonostante i riferimenti chiarissimi, perché questo genere non ha mai smesso di essere suonato da quarant’anni in qua e non potremmo essere più lontani dal concetto di “ritorno ciclico della moda”. Fortunatamente è un filone che ogni tanto affiora di nuovo in superficie ed è sempre una benedizione quando tutto gira a perfezione come in questo album.

Le carte sono tutte servite in tavola dall’inizio, grazie a How The Race Is Done, brano influenzato dal movimento #BlackLivesMatter, l’unico sopra i 4 minuti. Dinamica alla REM, qualcosa dei Placebo nel cantato, un riff spedito, la base ritmica implacabile, l’impeto alla Hüsker Dü; una partenza fortissima. Nella seconda traccia, Every New Mistake, brilla una prova maiuscola del chitarrista Hamilton Santià, qui un po’ Peter Buck, un po’ Johnny Marr, nervoso e tagliente, non suona una nota di troppo, traduce perfettamente quel senso di inquietudine che vibra sottopelle. Poi c’è Broken Kid, più riflessiva a introversa, un jangle pop irresistibile che racconta storie di emarginazione e diversità, orgoglio e combattività, con un finale dove uno spiraglio di luce sembra filtrare fra i palazzoni grigi, quando Michele Sarda canta “go on with all your wishes, go on, go on, I’ll see you there”.

Si prosegue con l’apertura alla Smiths per Just So You Know, la traccia si fa più arrabbiata, precipitano bordate di riff secchi e sincopati senza perdere il filo della melodia nevrotica e malinconica; poi c’è la grintosa Towards Me, strutturata ancora su arpeggi di ispirazione mancuniana e scintilii al servizio di una ritmica serrata, scarna e travolgente. Time To Run è briosa, ma con l’amaro in bocca, come potevano esserlo certe gemme degli Housemartins. Ci si avvia verso la chiusura del disco e del cerchio accompagnati dalle note di Try, puro spleen Teenage Fanclub, canzone più sognante e romantica, che sembra quasi un tributo a Stipe e soci, per concludere con From Here On, dove ci si lascia le ferite alle spalle e ci si spinge con l’ottimismo della tigna verso certi sogni irrealizzabili, con un trasporto colorato di speranza.

Sono costretto a sbilanciarmi in maniera piuttosto spericolata: questo è un debutto che alza parecchio l’asticella per l’indie-rock italiano del 2021, a oggi sembra davvero difficile fare di meglio.

Andrea Bentivoglio