No, non è il caso di addentrarsi nella discussione sterile e forse un po’ noiosa su quanto i Radiohead siano stati geniali, oppure soltanto ruffiani, nel promuovere l’uscita di “A moon shaped pool”. E non è nemmeno il caso di analizzare una ad una le tracce di questo nuovo disco come fa Buzzfeed con le dieci cose che puoi capire solo se hai un gatto. La questione è che siamo di fronte a un fenomeno puramente pop talmente importante e ricco di significato, che qualunque tipo di approccio appare sbagliato e riduttivo, tanto da rischiare di svuotarlo di contenuto. Si potrebbe buttarla sulla disamina vagamente dotta della musica prodotta dai cinque di Oxford in questo nono, attesissimo album. E allora inizieremmo a decantarne le straordinarie qualità tecniche, la maestria con cui mescolano il mondo analogico con quello digitale, sacro e profano, senza mai aggiungere né togliere troppo. Il primo singolo per esempio, “Burn the witch”, ne è una grande dimostrazione. Accolto con poco entusiasmo anche dai fan, il brano è un antipasto del sapiente lavoro di orchestrazione pensato da Jonny Greenwood e perfezionato dalla London Contemporary Orchestra (filtri e riverberi non ingannino). Ma che senso ha soffermarsi sul dato prettamente tecnico, quando si parla di una band pressoché perfetta e di un disco che, per una volta, aggiunge poco a quanto già proposto in passato dal punto di vista dei suoni? C’è il minimalismo di “Daydreaming”, forse la traccia più bella dell’album. C’è il ritorno all’acustica in “Desert island disk”, ballata dal retrogusto più americano che inglese. Ci sono le atmosfere ipnotiche e incalzanti di “Ful stop” e “Identikit”, sinth e drum machine, in continuità con il precedente “King of limbs”. C’è anche una struggente versione di “True love waits” al pianoforte. Canzoni che, peraltro, erano già state in gran parte eseguite dal vivo.
Perché dunque non discutere del messaggio? Della costante alternanza tra luce e ombra di cui parla Thom Yorke nei suoi testi mai così apertamente autobiografici? “And in your life there comes a darkness, this spacecraft blocking out the sky”, canta in “Decks dark”. In “Glass eyes”, al contrario, si prende una luminosa, temporanea rivincita: “And you’re so small, glassy eyed light of day”. Luce che, però, è sempre e comunque filtrata da vetri, finestre, porte socchiuse. Non è mai diretta, quasi mai reale. Ma è proprio da qui, dall’idea del riflesso, che si può provare a capire la portata di un gruppo come i Radiohead. Se sono così tanto amati, così trasversali nonostante la loro musica non sia propriamente radiofonica, forse è perché negli ultimi vent’anni sono stati tra i pochi, se non gli unici nel panorama pop, a saper riflettere i sentimenti e le paure dei ragazzi del nuovo millennio. Forse con le loro canzoni ci hanno aiutato a capire che c’è qualcosa di sbagliato, di alieno, nella nostra generazione.
C’è un profilo migliore e uno che non vorremmo mai vedere. Un occhio aperto e l’altro bloccato a mezz’asta. Una paralisi congenita con cui però dobbiamo imparare a convivere giorno dopo giorno, fino ad accettarla. Finché tutto non tornerà a posto. Everything in its right place.
Paolo Ferrari

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.