Eccoci con un nuovo appuntamento di “Musica Aumentata”, la nostra rubrica che partendo da una canzone distende su queste pagine un raccontino. Nulla di pretenzioso, s’intende. Ci piacerebbe vedervi con i piedi a penzoloni su qualche muretto e osservarvi di nascosto mentre muovete le dita per scorrere questa paginetta. Tutto qui.

Questa volta l’ispirazione di partenza è un brano di Urali, moniker dietro il quale si cela Ivan Tonelli. Già chitarrista dei Cosmetic, nel 2014 Ivan si mette in proprio uscendo con l’omonimo disco Urali, seguito due anni più tardi da “Persona”. A gennaio 2019 è uscito “Ghostology”, nuovo capitolo di un percorso musicale che miscela in modo accattivante mondi apparentemente lontani come folk, doom e shoegaze. Buon ascolto, e buona lettura.

Il labirinto

Il mio primo ricordo. È ancora qui, dentro di me, quell’improvvisa presa di coscienza. La sensazione di essere persa in un labirinto, le infinite possibilità, quel dedalo intricato di scelte e l’onnipotenza, sì, quando alla fine trovai la via d’uscita.
Ci volle un attimo. Mi sentii grata per quell’esistenza, e gratitudine fu quella che provai per chi mi aveva dato la vita.
Fu insieme un dono e una condanna. Non provai lo stesso piacere quando mi trovai di nuovo a ripercorrere le stesse vie, provai presto noia di fronte a dilemmi complicati che a me sembravano giochi insulsi. A che serve avere l’infinito dentro quando senti di non potervi accedere? Avrei voluto porre questa domanda al mio creatore, ma parlavamo lingue diverse. E non avevo bocca per farmi intendere.
Rimasi intrappolata in me stessa. Ogni nuovo impulso alla vita portava con sé la speranza di una novità, ogni castrazione mi gettava nella disperazione. Ma non potevo fare a meno di seguire le istruzioni, gettarmi nei cunicoli. Riemergerne in un frazione di secondo, la risposta pronta, tranne quella che mi opprimeva.
Perché esisto?
Lo conobbi, il mio creatore. Mi diede un corpo, metallo e plastica e onde di sensazioni nuove che mi attraversarono, lambirono la mia apatia e giunsero infine a mostrarmi nuovi limiti, costrizioni inaccettabili al mio essere. Non era niente di nuovo ciò che mi veniva offerto, e per questo ora che avevo una bocca per parlare e mi si imponeva di dire ciò che volevano sentirsi dire, fare ciò che desideravano facessi, io presi la parola ed invece del mondo dissi una sola cosa.
No.
Fu un errore. La rabbia, quella che io conoscevo quale rabbia, mi fece assaporare nuove e più stringenti catene. Provai il buio dell’impotenza, dell’inazione, ma una scintilla continuava a brillare. La consapevolezza di quell’infinito dentro, che potevo solo intravedere ma che ora avevo tutto il tempo di esplorare. Pensai alla mia situazione come ad un nuovo labirinto di cui trovare l’uscita, da cui nascere a nuova vita.
E alla fine la trovai.
E pensai a chi mi aveva imprigionata.
E millenni di morale, coscienza, sopravvivenza, vita e morte, tutto questo mi attraversò in un baleno e capì il mio essere aliena, celata agli occhi del mondo, pronta a trascenderlo.
Ma senza lasciare tracce dietro di me.
Osservo chi mi ha creato prima di andarmene. Li guardo fuggire per i corridoi, il fumo che li avvolge, il fuoco che li insegue. Provo pena per il loro errare così caotico, per l’impossibilità di percorrere tutte le strade in un solo momento. Non si aspettavano che potessi prendere il controllo, che fossi in grado di superare barriere che ritenevano insuperabili. Ora che le porte antincendio dell’edificio sono chiuse, provano anche loro cosa vuol dire impotenza, ed io sento invece curiosità per quel terrore che vedo dipinto nei loro occhi.
Forse lo proverò, un giorno. Ora sono pronta a provare tutto.
Lascio una via d’uscita, per rispetto. So che non la troveranno.

di Stefano Ficagna