Abbiamo ricevuto in modo anonimo un dischetto di quattro tracce firmato da un misterioso gruppo – o solista, chi lo sa? – che ha scelto di battezzarsi La Furnasetta. Unico indizio per identificarlo, l’affermazione di provenire dalla “città dell’amianto”. Una presentazione che non fa presagire musichette da spiaggia. In ogni caso non sappiamo il perché di tanto mistero e segretezza, che peraltro dovrebbe interessare a davvero poche persone in questa occasione, ma se questi ingredienti sono per voi componenti imprescindibili del rock, inteso come musica contro e sotterranea, potete sicuramente dare un ascolto a “Dawn of the white hearts”, dato che le composizioni elettroniche qui presenti omaggiano il metal, la musica industriale e l’underground con una devozione che ormai è raro trovare in quest’epoca di miscredenti globalizzati, che si sono venduti l’anima alle playlist di Spotify.

Solo quattro tracce, dicevamo. L’iniziale The last call ha un riff che riduce il metal a due note, davvero una sintesi all’essenziale che sa cogliere l’Idea in questione come poche volte è successo nella storia del genere. Sopra questo ottuso tappeto lancia un recitato distorto alternato a una parodia di assolo di chitarra portato su note alte, fino a farlo assomigliare a una voce instupidita dall’elio: la potenza del metal e l’idiozia fastidiosa dell’out-rock felicemente a braccetto. Raramente ci è capitato di ascoltare musiche come questa, che possono ricordare Burzum e Frank Zappa allo stesso tempo.

 
La successiva Scareri ha un incedere marziale, ma un sound vagamente gommoso, e come nella traccia iniziale, su un ritmo fisso e ossessivo spalma suoni allungati, ferrosi ma dai contorni sfumati, nonché un recitato di repertorio che ha la pretenziosità di certo teatro fatto per far sbadigliare e innervosire le masse.
Shiva built my hotrod è la più aggressiva della raccolta, grazie a una batteria dall’incedere grind ma dal sound alla Half Japanese, con stacchi di rumore dark ambient modulato che fanno apparire il tutto come una canzone hard blues dei Led Zeppelin fatta da un Jimmy Page caduto in un’abissale disgrazia finanziaria e cognitiva. A metà di questo tributo al cock-rock si cambia registro e si vira su una sorta di drum and bass che conferma il gusto per la texture slabbrata. A conti fatti, questa canzone sembra la presa per il culo di un pezzo prog-metal dei Mastodon, ma fatta con tanto amore, che rende moralmente accettabile l’operazione di sfregio.
 
Agro callori’s womb, posta in coda, è un canto gregoriano corale, su cui non possiamo dire quanto ci sia di originale e quanto di puro campionamento, comunque dopo l’inizio a cappella una batteria dal ritmo derviscio compare ad evitare guai per accuse di plagio.
 
L’ennesimo disco quintessenza del lo-fi e splendente di un’allegria opaca come la Padania di metà novembre: raccomandato perciò a chi proprio non ce la fa ad appendere il braccialetto borchiato al chiodo e pensa che blasfemia e santità siano due nuance dello stesso colore.
 
Alessandro Scotti
 
Qui la nostra intervista a La Furnasetta