Recensione

K/(s)/A/LA troppi anni dal precedente “Viva Terror”, la one woman band K(s)A/L (alias Kaiser (schnitt) Amboss/Laszlo) torna con il nuovo “Rock’n’roll Hole of Famine” e riprende il filo del suo discorso fatto di country blues da cimitero e manicomio. Cosa che non ci sorprende, perché eravamo sicuri che fosse una persona dalle idee chiare. Quindi una novità nel segno della continuità, ma con alcune piccole variazioni sul tema che vale la pena evidenziare: via le concessioni EBM che erano presenti sul disco precedente e più spazio a intrecci di chitarra e assoli, che fanno riecheggiare nelle tracce presenti il fantasma dell’hard-rock degli anni 70. Perciò, se la raccolta precedente ricordava spesso Johnny Cash a fine carriera, ecumenico e saggio, adesso abbiamo toni più scapigliati e più brillantina: Rolling Stones della maturità, il primo Alice Cooper, gli Alice in Chains ma con più sobrietà degli originali o i Royal Trux meno autoindulgenti, sono tutte suggestioni che dovrebbero aiutarvi a immaginare ciò che potreste udire tra questi solchi.
Come nel predecessore del 2011, la batteria è praticamente assente, se non come cassa in levare stomp su alcune canzoni; la voce, spesso effettata con l’eco, canta con tono indignato e tremolio cupo. Gli arrangiamenti sono raffinati e ridotti all’osso: in alcuni casi il canovaccio è folk, come in Spook, Whoo-da-who e Fields, in altri più glam e pestifero, come in Up e Destroy, altrove il tutto si rinsecchisce e disidrata e resta una specie di folk da camera, che potrebbe ricordare Scott Walker in Crackers, oppure la musica si fa astratta e colta, al limite del minimalismo più o meno da accademia, come in Discodog, o più matura, cesellata e vicina al cantautorato classico in Riding. Un gradito ritorno, sperando di non dover aspettare altri 5 anni.

 

Intervista

Dal disco precedente è passato più di un lustro, questo lungo parto cosa ti ha insegnato sul mondo della produzione musicale? Posto che immagino ti abbia frustrato perché mi raccontavi che volevi uscire prima col disco.

Certo, questo disco doveva uscire molto prima. Al di là dei più diversi ritardi tecnici (collaborazioni-passi mancati, finanze, grafiche), il lasso di tempo intercorso tra “Viva Terror!” e questo “Rock’n’roll Hole of Famine” è così lungo perché manca di un elemento: tra i due era stato registrato un altro long playing di 10 brani, che non ha potuto vedere la luce perché riposa in pace nel cassetto di un management. E lì deve stare. Così questo che adesso ascolti trascina con sé l’eco parziale del lavoro precedente e mai uscito, e ovviamente le considerazioni che ne conseguono. Sì, la frustrazione c’è tutta, perché non è per nulla gratificante avere in mano del materiale e vederlo soffocare sotto la pressione di un problema dietro l’altro, problemi che nulla hanno a che fare con la qualità del lavoro. È come se quello che fai si allontanasse sempre di più.

Chi ha prodotto il disco? Chi lo ha fatto uscire? Come verrà promosso?

Kaiser Laszlo l’ha finanziato, Kaiser Laszlo l’ha fatto uscire sotto l’M&A Urdrum. L’album è stato registrato da Davide Chiari nel piccolo studio analogico di Riserva Indiana, nelle pauldi mantovane. Lo diceva uno alla fine della corsa: posso contare sull’appoggio di alcuni amici, quindi verrà promosso come sempre è stato. C’è chi ne farà una recensione, c’è chi l’ascolterà, se c’è qualcosa da dire in proposito, la qualcosa rimbalzerà. O così dovrebbe andare. Intanto lo si può comprare e questo è benzina per gli ingranaggi.

Che ruolo ha avuto il Colonnel XS (autore di elettronica power violence e artista a tutto tondo con cui Kaiser Laszlo ha più volte collaborato, ndr)?

In questo lavoro il colonnello è presente nella sua forma più astratta. Come il Dio Punto di Flatland. O come Timbaland. È sua la foto in retro copertina (la grafica e il layout sono invece di Michela Michekat Aimi) e suo il poderoso colpo di tamburo alla fine di Destroy!, poi opportunamente domato perché gigantesco à la XS. La mancanza di una sua impronta più incisiva è dovuta all’attuale distanza geografica, ai problemi di cui sopra, alle tempistiche, sempre opportunamente sbagliate.

Come mai hai rifatto Destroy e come mai hai tolto le arti industrial e “EBM” ?

Non è affatto inconsueto che rifaccia i miei stessi pezzi: su “5th Season” ho costruito un intero Ep, oltre a rifare la stessa in forma completamente diversa ed elettro/acustica. E qui è presente un’altra, diversa versione di Theoria. E comunque questa non è nemmeno la stessa “Destroy your generation”. Di quella, autocito solo il ritornello, le strofe recuperano un mio vecchio pezzo da “Oblom”, altro album di 13 pezzi mai uscito. La carica EBM di quella originale (in realtà generata da una semplice e primitiva TR 505 pluggata in un flanger della Boss) e tutti gli elementi agitatori di “Viva Terror!” non ci sono perché qui non c’è colonel XS. Quello che rimane è una chitarrista/cantante.

Su disco mi sembra più rock and roll e soulfoul, concordi?

Direi proprio di sì, è un disco molto solido di canzoni generate per voce e chitarra. C’è molta elasticità toracica in tutto questo.

Di cosa parlano i tuoi testi, come li scrivi, di getto o sono meditati?

I testi hanno una gestazione diversa da brano a brano, spesso partono da un nucleo a gestazione lunga, ma poi escono subito, senza mai incontrare particolari aggiustamenti, se non quelli di metrica, e ovviamente di suono. Scrivo solo di quello che vedo e sento, e il 90% di quello che trovi dentro a questi testi è il prodotto di visioni deludenti. Mai sottovalutare il potere dello squallore.

Come mai senza batteria, quando hai deciso di fare un progetto solista e non un gruppo?

L’assenza della batteria non è una scelta stilistica. È la conseguenza della stessa assenza, no? Voglio dire, se non hai nessuno che ti tiene il tempo, cominci a tenerlo da solo, e per me non ha mai voluto dire attaccarmi una gran cassa al piede. Mi dicono spesso che se ne sente la mancanza, e io dico ovvio che la senti. Quello è il canto di uno solo. Eppure quel vuoto ha molto senso, per me, quando suono, e per te che ascolti. Poi [K(s)A/L] è stato sempre un mostro un po’ promiscuo, ha vissuto il duo, il trio, la formazione a quattro, quella acustica, pur restando sempre e comunque il progetto di un unico individuo.

Farai mai musica classica come esperimento tipo Danzig ai tempi? Ti ci vedrei bene!

Aah! Beh. Conta il Requiem con colonel XS? Comunque no. Non avrebbe dovuto farla nemmeno Danzig, o forse nel suo caso il tutto ha perfettamente senso. Comunque no, al massimo sono arrivata a toccare il favoloso mondo degli sperimentatori sonori. Sono un po’ i parrucconi del nostro ambiente. Quelli un po’ più su nella gerarchia… ma questo è un’altra storia.

Canterai mai in italiano?

Ho usato parole italiane in testi inglesi, interi testi in italiano mai. È una lingua difficilissima da veicolare sul suono e sul tempo, deborda, sempre. Ha un effetto che in questo caso non mi interessa, non mi è funzionale.

A chi ti ispiri per K(s)A/L? È la stessa musica che ascolti nel tempo libero?

Ho diversi punti fermi, come tutti. I dischi eroici e gli stessi Eroi. Sono tantissimi. Che per me hanno voluto dire i vinili della Pro Musica del vecchio, fatti girare sul piatto all’età dell’asilo, gli Ac/Dc, gli Abba e Elvis di mio fratello maggiore in heavy rotation, e tutto ciò che col tempo mi ha attraversato, più consapevolmente. Mi riempiono il torace tutti i pionieri, non importa di che epoca o luogo. Impazzisco per i medievali che tagliavano a metà i valori per rendere il canto più articolato ed acrobatico, come mi fa impazzire l’immagine più “ovvia” (mica tanto poi) della mano di Stevie Ray Vaughan mentre piega quelle corde enormi. Non sono diversi. Li accomuna la cosa più grande di tutte: la devozione.

L’ispirazione ti arriva anche da altre forme d’arte?

Certo, tante cose mi catturano, e guai se così non fosse. Un gran pezzo di letteratura, di scienza o una gran tela, ma se vuoi un non musicista, chi per me funziona come una vera e propria cartina al tornasole è Marcel Duchamp. Gli ho dedicato davvero tanto tempo. Che intelligenza.

Come porterai dal vivo le nuove canzoni che hanno parti con due chitarre, che però vale anche per alcune del vecchio disco?

Sono da sola sul palco da diverso tempo, tutti i pezzi sono sempre stati portati con voce e chitarra sola e tre pedali. Io non ne ho mai risentito, i pezzi nemmeno. Ma ultimamente ho fatto un salto in più. Sto lavorando, sul palco e in studio, con Federico Divari, e se non vi va bene chiamatelo Murdered, un gran chitarrista, eccentrico e con un vocabolario e interessi molto articolati. È bello lavorare con un altro chitarrista, cosa che non mi è mai accaduta prima, i pezzi acquistano ancora più valore nei termini di un’architettura leggera. E si impara. E quel vuoto al di sotto è ancora più eccitante. Tutto sembra sempre sul punto di crollare.

Dove vivi e come ti influenza musicalmente il luogo dove vivi?

Vivo nello stesso posto di sempre, le paludi emiliane. Non mi piace niente di questo posto, e siccome diventa una prigione ti convinci di essere il messaggero di questo scoraggiamento. Quando funziona e lo fai bene, hai comunque vinto.

A cura di Alessandro Scotti