Birø, all’anagrafe Andrea, è un cantautore classe 1990 originario di Varese. Un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica e a raccontare storie attraverso musica e parole. Dopo la pubblicazione del suo primissimo Ep, “Incipit“, Birø si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha visto la sua partecipazione anche al Mi Ami Festival 2017 e al Collisioni Festival. Forte di questo successo, il cantautore lombardo darà presto alla luce il suo primo Lp intitolato “Capitolo 1 – La Notte”. Ad anticipare l’uscita dell’album è il singolo “Tangenziale”, pubblicato in questi giorni per Vetro Dischi / A1 entertainement. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il suo percorso artistico.

A cura di Alessandro Benedetti

 

 

Tangenziale è il singolo che precede l’uscita di “Capitolo 1 – La Notte”. Che cosa racconta questo viaggio artistico e in quale direzione porta la “tangenziale” di cui canti?

Il percorso artistico di Birø ha, in realtà, origini più lontane, e risale al 2017 con l’uscita dell’Ep “Incipit”, che rappresentava musicalmente il racconto di sogni, paure ed ambizioni di un ragazzo – indicativamente – di vent’anni. La nuova tappa del percorso invece, “Capitolo 1”, rappresenta la naturale prosecuzione della storia: qui il ragazzo diventa uomo. Inaugurato da Tangenziale, il racconto ha inizio attraverso uno degli elementi propri della vita di un adulto, ovvero il ritorno a casa in automobile dopo una giornata di lavoro, alla ricerca di un momento di tranquillità. Il continuo della storia, che dall’incipit avanza di capitolo in capitolo, affronta il tema della depressione e dell’irrequietudine; a testimonianza di questo, in Tangenziale mi soffermo a lungo sulla strofa, che recita: «E a volte, solo a volte/ Io ho come l’impressione / Che sia stato tutto frutto della mia immaginazione». Questo momento di serenità e tranquillità che scorgo in fondo alla tangenziale, ho paura che non esista, che sia frutto della mia immaginazione. La ricerca della felicità, spesso, conduce alla follia, e questo in “Capitolo 1” è esplorato e indagato.

Paragonando il viaggio musicale di “Incipit” e “Capitolo 1” al viaggio che compi nella vita reale, tu che sei nato nel ’90 e ti avvicini alla soglia dei 30 anni, come ti senti di essere a questo punto del percorso? Hai trovato l’equilibrio che canti, e cerchi, in “Capitolo 1”?

La risposta secca è “no” (ride), nel senso che non cerco e non sono il tipo di persona che ricerca e si adagia nell’equilibrio. Quando, e se riesco, a trovare l’equilibrio è una sensazione di piacere e tranquillità che dura molto poco… Tendo a romperlo e spezzarlo, anche artisticamente. Non mi piace adagiarmi su un’unica linea musicale o ripetere concetti musicali già assodati. Ho un’indole che mi porta a sparigliare le carte, mi stufo della monotonia e dell’equilibrio, ho bisogno e cerco dinamicità. Musicalmente mi definisco onnivoro, nel senso che ascolto e apprezzo di tutto, senza pormi limiti o confini.

Provieni dalla scena di Varese, nell’ultimo periodo sempre più protagonista, sia con l’esplosione dei Belize, sia con la recente nascita del progetto discografico Vetrodischi. Come è nata la sinergia tra il tuo progetto e i Belize? Quanto Varese influenza il vostro e il tuo percorso?

Non posso riferirmi ai Belize in termini di collaborazione stretta, nel senso che sia a livello musicale sia personale non posso raccontare di un percorso che si intreccia, ma in particolare ho un rapporto consolidato con Mattia Tavani, che segue e cura il percorso musicale di Birø. Ho grande stima e ammirazione per i Belize, nato anche da un naturale affetto per la loro provenienza da Varese. Sono stati loro i primi – con onore – a far emergere Varese nella scena musicale indipendente, e di questo ne sono felice. Varese è una città comunque piccola e questo ha fatto sì che da ventenne frequentassi Mattia, e da quell’amicizia nascevano pomeriggi in cui suonavamo in casa assieme. Ho anche dato vita a un Ep che però rimarrà sepolto nell’abisso di internet, senza che riveli mai nulla! (ride). Posso dire sia stata la mia prima esperienza di produzione e collaborazione e mi ha formato molto. Poi la sua carriera musicale è continuata con i Belize, allontanandosi dalla mia, considerando che avevo anche abbandonato l’idea di continuare con la musica. Ci siamo poi ritrovati, dopo anni, nell’idea di realizzare “Incipit”. Ora ho un’idea solida e chiara di quello che voglio fare, e Mattia mi accompagna, mi sostiene e mi consiglia in questo, il nostro legame è molto stretto.

Vetrodischi è un’etichetta indipendente di musica italiana, di base a Milano, pensata e creata da Francesco Italiano e Giacomo Zavattoni. Come e perché è nata, quali sono le esigenze che hanno portato alla nascita di questa etichetta, di cui fai parte?

Vetrodischi nasce, su ispirazione pirandelliana, per raggruppare “12 artisti in cerca d’etichetta”. Semplicemente nasce dall’esigenza di trovare lo strumento che potesse sostenere, promuovere e realizzare il progetto artistico di alcuni musicisti, alla ricerca di qualcuno che potesse dargli voce. Vetrodischi è quindi cassa di risonanza di artisti appartenenti ad un delineato percorso artistico, che potremmo largamente definire indie-elettronica-cantautorato, tutti provenienti dalla zona che si estende da Milano a Varese. Francesco e Giacomo sono estremamente impegnati e concentrati su questo progetto, e la prospettiva è quella di crescita, per cui Universal, inizia a guardarti le spalle…

Il tuo suono e la tua identità sono estremamente definiti e ciò che convince della tua musica è la tua unicità, il trasportare gli altri e non essere trasportato. Quali sono gli artisti che più ti influenzano?

Da fruitore provengo da una scuola indie-rock, nata nel 2006, e rappresentata dagli Arctic Monkeys fra tutti. Sono cresciuto con questa musica e questo suono, per questo concepisco l’inizio di un pezzo partendo dalla chitarra, che sia acustico, ritmico o groove. Inizio poi a giocare con il computer, dove sperimento e creo nuovi suoni, e questo deriva anche dall’interesse che negli anni ho avuto per Bon Iver, James Blake, Bonobo. Da loro ho rubato suoni elettronici e campionamento, che sono estremamente interessanti, perché ti permettono di arrivare in luoghi in cui non avresti mai pensato di arrivare. Si tratta sempre di mescolare, sperimentare, cambiare, stravolgere e rinnovare un suono e, infine, per chiudere un cerchio con quanto detto all’inizio, trovare un equilibrio.